Novità, cambiamento, cambio di rotta, queste sono le classiche parole che si sentono quando qualcuno o qualcosa cerca di darsi una nuova identità lasciandosi alle spalle quel che lo ha caratterizzato nel passato. Nel caso dell’Italrugby questo qualcosa è sicuramente l’ultimo decennio, scarno di vittorie e soddisfazioni. Sette anni senza vincere al Sei Nazioni, una vera e propria abitudine alla sconfitta che ci aveva fatti sprofondare nell’oblio più assoluto di tifosi senza speranza, che ormai si erano abituati a raccattare le briciole per strada di chi conta davvero. Questo, però, è solo quel che concerne la nazionale maggiore maschile, perché il femminile ha invece guadagnato un suo posto nel panorama internazionale e le giovanili hanno progressivamente iniziato a lasciare il segno nei propri tornei di fascia di età. Poi, poco dopo la vittoria di Marzio Innocenti alle elezioni federali del 2021, il vento è sembrato cambiare almeno in superficie. Non bisogna però lasciarsi trascinare da facili entusiasmi su queste cose perché, se è vero che il nuovo presidente sta provando a cambiare le cose, è anche vero che i successi arrivati nell’ultimo anno sono frutto di un lavoro sporco decennale impostato già dai suoi predecessori, per quanto criticati dall’ambiente. L’Italia, e il rugby italiano in generale, ha dovuto e deve ancora in parte finire di cambiare volto e attitudine. Cambiare abitudini, strategie, idee, concetti. L’ingresso nel Sei Nazioni è stato uno shock culturale più grande di quanto potessimo immaginare, un’iniezione di denaro a pioggia sopra una federazione ancora amatoriale e priva di veri professionisti del mestiere capaci di gestire quelle somme in maniera oculata e strategica, senza la lungimiranza di chi ha navigato quelle acque in precedenza. Nel primo decennio di Sei Nazioni e prima della Celtic League, i club di Super 10 spesso usarono il maggior denaro in ingresso per imbottirsi di stranieri ed essere quantomeno capaci di reggere l’urto nelle coppe europee (un esempio). Questo garantiva il galleggiamento nel presente ma non pose le basi per un futuro solido, scotto che abbiamo pagato nel secondo decennio scarno di vittorie. Molto si è fatto negli anni per cambiare in questo senso, ma la strada è ancora lunga. Un pathway d’elite composto da accademie zonali, l’ingresso in una competizione internazionale per club con due franchigie, l’ammodernamento delle strutture di allenamento ove possibile, ma non basta ancora. E non basta nemmeno l’insediamento di un homo novus per cambiare le cose, anche se questo può esserne il simbolo. In questo articolo voglio dunque tirare le fila di quello che è cambiato negli ultimi 20 anni e di quello che deve ancora cambiare, per fare il punto della situazione ed organizzare le idee per dirigersi verso un futuro degno di essere vissuto per il nostro movimento.

Il lavoro sporco delle accademie
Nel 2006 venivano inaugurate le accademie FIR, quelle che poi nel tempo sarebbero diventate i Centri di Formazione Permanente (CDFP), nel tempo divenuti veri e propri riti di passaggio per i giocatori professionisti italiani. L’ingresso nel Sei Nazioni nel 2000 aveva lasciato il segno, e il crosstalk con le altre unions ci aveva resi consapevoli dei nostri limiti strutturali. Un rugby professionistico dal 1995 stava crescendo a velocità smisurata e non riuscivamo più a starci dietro con la sola formazione nei club. Le skills, le letture, il decision-making, insomma tutte le qualità essenziali di un giocatore di rugby moderno prodotte dai nostri vivai non erano alla pari di quelle dei coetanei delle altre cinque nazioni, ora che avevamo un contatto più stretto con loro. Per mettere una pezza al sistema di formazione dei giocatori, e creare un percorso d’elite che fosse competitivo con le altre cinque unions del Sei Nazioni, si intraprese la strada delle accademie. Si trattava di centri di formazione associati a specifici territori dove i giocatori invitati si allenavano più duramente dei propri coetanei, frequentando una scuola della zona per guadagnare un titolo di studio assieme alla formazione rugbistica, ma venendo istruiti nell’arte del rugby da un nutrito staff di allenatori. Un sistema molto “irlandese”, che nell’isola smeraldo nel tempo ha portato a un vero e proprio nastro trasportatore di giocatori di talento anno dopo anno fino al primo posto nel ranking mondiale. Questo sistema è quello da cui sono passati i vari Edoardo Padovani, Federico Ruzza, Pierre Bruno, Giovanni Pettinelli, ma anche tanti altri giocatori importanti dell’Italia di oggi e di ieri. Se hanno avuto un difetto, è stato quello di aver assecondato troppo spesso logiche clientelari nei processi di selezione ma il progetto in sè aveva senso di essere. Ed ecco che infatti, nel 2016-2017, l’arrivo di Stephen Aboud dalla IRFU (Irlanda) portò una riforma che ne incrementò la centralità nella formazione. Riduzione delle accademie zonali da 9 a 4, ribattezzate CDFP, e introduzione dell’accademia FIR di alto livello dove far confluire il meglio del meglio dei CDFP, facendolo confrontare con la Serie A italiana come una vera e propria squadra. Riducendo il numero di atleti coinvolti si poteva concentrare le forze di coaching solo su quelli davvero promettenti. Elitista, magari, ma sicuramente proficuo. Per questo sistema sono passati praticamente tutti i talentini che fanno oggi l’ossatura della nuova Italia capace di battere Galles e Australia, e impensierire Irlanda e Francia: Lorenzo Cannone, Manuel Zuliani, Tommaso Menoncello, ma anche i giovanissimi Leonardo Marin, Luca Rizzoli e Giacomo Ferrari solo per fare alcuni nomi noti. Sebbene non tutti gli atleti under 25 ora in nazionale siano passati per l’accademia FIR (un caso, ad esempio, è il capitano Michele Lamaro, passato direttamente dalla Lazio al Petrarca), è anche vero che l’afflusso di giocatori di assoluto alto livello è aumentato con la riduzione dei centri. Invece di produrre dieci giocatori di medio livello siamo riusciti a produrne 1-2 annuali capaci di scalare tutte le gerarchie fino a inserirsi in franchigia e in azzurro. Questi valori vanno calcolati guardando il numero di giocatori che arrivano ad essere titolari in nazionale maggiore. Non c’è bisogno di averne dieci all’anno, se riesci ad assicurarne 2-3 di assoluto valore. Eddie Jones, quando era coach dell’Inghilterra, diceva sempre di volere una quota fissa di nuovi giocatori in rosa nazionale ogni anno. In questo, senza dubbio, le nuove accademie ridotte di numero e aumentate di qualità sono state centrali, portandoci ad emanciparci dalla dipendenza dall’equiparazione massiccia di oriundi bravi a giocare, fino a diventare la seconda nazionale del Sei Nazioni per numero di atleti prodotti in casa. Siamo, inoltre, una delle nazionali più giovani del panorama mondiale. La speranza è che continuino ad esserlo anche in futuro, vista la nuova riforma. Il nuovo corso suddivide l’accademia FIR di Parma in due accademie U23 assegnate alle franchigie (Parma e Treviso), e sostituisce i 4 CDFP (o accademie zonali) con 10 poli di sviluppo individuati nel territorio italiano, con alcune differenze di modus operandi di cui abbiamo parlato qui.
Un posto in Europa trovato faticosamente
Dopo le accademie, anche il campionato necessitava di una rivisitazione negli anni successivi all’ingresso nel Sei Nazioni. La crescita rapida del rugby con l’avvento del professionismo aveva gonfiato a dismisura campionati già ricchissimi e seguiti come la Premiership inglese e il Top14 francese, dove gli investimenti privati sono ingenti e il margine di crescita importante. Il Super 10 italiano, campionato molto seguito al tempo e neanche troppo povero, non riusciva a starci dietro. Era essenziale riuscire a convertire la mentalità dei club, abituati al semi-professionismo e al fare le cose un po’ alla bell’e meglio. Portarli ad essere più simili ai grandi club europei, con giovanili ben strutturate e attenzione al dettaglio nel coaching e nella preparazione di determinate situazioni di gioco. Long story short, non è stato possibile o quantomeno non in tempi utili, ritrovandosi ad avere un campionato pieno di atleti stranieri competitivi, per cui si è intrapresa la strada della Celtic League nel 2010. Portando due squadre a giocare contro avversari gallesi, scozzesi e irlandesi settimanalmente si è alzato il livello delle sfide almeno per un paio di squadre, migliorandone sensibilmente anche le facilities e il coaching per dirla alla anglosassone, allenando meglio i giocatori fortunati di queste due squadre. Sono stati imposti anche dei parametri a queste due squadre, perché non diventassero altri ricettacoli di atleti stranieri ma parti integranti di un percorso di sviluppo di atleti nostrani. Chiaramente è stata dura scegliere quali portare, ci sono state diverse battaglie per decidere chi andava, ma alla fine l’hanno spuntata il Benetton Rugby e gli Aironi, questi ultimi poi divenuti le Zebre in qualche anno. Nel corso degli ultimi 13 anni, ossia quelli giocati nell’esperienza celtica, il Benetton Rugby ha saputo strutturarsi bene e diventare a tutti gli effetti un club professionistico comparabile a quelli della propria “categoria di peso”: Edimburgo, Glasgow, Connacht, Scarlets, Cardiff, Ospreys, ma anche alla pari di club inglesi e francesi di media classifica. Il discorso sulle Zebre è diverso, perché invece non sono mai riuscite ad attrarre nessun investitore privato capace di pareggiare l’investimento federale, e il sussidio di mantenimento non è mai stato abbastanza per mettere in piedi qualcosa di vincente. Ora si sta provando a convertirle in una franchigia sfacciatamente di sviluppo, la speranza è quella di riuscire a dargli un’identità, ma anche di attrarre investitori locali a Parma e collegarle con il territorio a livello di giovanili. La sfida, per il movimento italiano, sarà vinta quando entrambe le squadre professionistiche saranno competitive e dotate di tutte le giovanili, non solo della prima squadra. Per ora, solo una delle due lo è. Con uno sguardo al futuro, sarebbe bello che il player pathway per l’alto livello si articolasse partendo dai poli di sviluppo, passando per il campionato domestico, poi per le due accademie U23 delle franchigie, per le Zebre, il Benetton, e per i migliori di tutti una chance nei top club europei che giocano la Champions Cup. Insomma, che il percorso di Danilo Fischetti, Marco Riccioni e Paolo Garbisi diventi la norma per i nostri campioni.

Un campionato domestico da riformare
Sotto le due squadre professionistiche che giocano in un campionato internazionale (lo URC) abbiamo mantenuto un campionato domestico. Il Top10, erede del Super 10 e dell’Eccellenza, è ciò che resta dell’affascinante campionato italiano prima dell’esperienza celtica iniziata nel 2010. Le squadre che vi partecipano sono quasi sempre le stesse, dotate di maggior cilindrata rispetto a quelle che invece vuoi o non vuoi salgono e scendono ogni anno. Purtroppo è notizia di pochi giorni fa che il Rugby Calvisano rinuncia al Top10 e riparte dalle serie inferiori per difficoltà economiche. Una realtà importante degli ultimi 20-25 anni che chiude i battenti non è mai una bella notizia, ma è sintomo che qualcosa deve cambiare. Il Top10 ha ancora molti lati interessanti: squadre come Padova e Rovigo lo animano con un derby che riempie gli stadi. Realtà come Colorno portano ogni anno molti giovani a confrontarsi con l’alto livello, dimostrando che con pochi soldi e una piazza piccola si può comunque fare bene. Il Valorugby è una squadra ostica con un discreto seguito, come lo è anche Viadana. Il Mogliano, campione d’Italia solo 10 anni fa, sembra un po’ malmesso ma con la maggior partecipazione del Benetton Rugby in termini di scambio di giocatori magari si riprenderà. Le Fiamme Oro come spesso accade partono bene e poi si spengono ma propongono un rugby di buon livello. Bisogna però capire che fare di questo campionato, che ha tanto potenziale come laboratorio del rugby italiano e meno invece come vecchia gloria. Basta con le patine nostalgiche del campionato di “quando c’eravamo noi”. Che senso avrebbe eliminare le franchigie, rinunciare alla possibilità di giocare contro i migliori ogni settimana, per un senso d’orgoglio che guarda solo al passato? Oggi il rugby è cambiato, bisogna andare a mille all’ora e a volte non basta, avere 8-9 milioni di € di budget e muoversi in un mercato professionistico. Questo spetta alle due franchigie, e sebbene si possa discutere su quali debbano essere le due franchigie, al Top10 spetta il compito di dare ai talenti emergenti uno spazio di espressione dove impressionare gli scout dei club professionistici ma anche crescere. In questo, forse, la FIR non sta agendo ancora del tutto nel migliore dei modi. La visibilità del prodotto è dietro paywall su Eleven Sports, anche se un match è in Rai ogni settimana. La cosiddetta corporate image non è delle più moderne, sembrando un prodotto a volte amatoriale. La produzione video delle partite è di basso livello, senza voler incolpare nessuno, ma questo non contribuisce a vendere bene il prodotto. Gli stadi sono spesso bruttini da vedere dalla televisione, non impressionando lo spettatore occasionale. Insomma, se il Top10 fosse un piatto, non sarebbe certamente una carbonara ma più il brodino con la pastina a forma di lettere che ci faceva la nonna quando da piccoli avevamo la febbre. Tutte queste piccole cose sono quelle che fanno aumentare i numeri di un movimento: basti pensare alla Spagna, dove le squadre che partecipano alla massima divisione hanno l’obbligo di fornire le live streams della partita. L’obbligo. È mia impressione che se si investisse un po’ di più nel marketing del Top10 e nel “rifargli il look”, si potrebbe creare un prodotto molto accattivante.

Il rugby femminile è competitivo
Se c’è un ambito del rugby che sta cambiando tantissimo negli ultimi 5 anni è il rugby femminile. Le nazioni più ricche del panorama ovale stanno investendo enormi somme di denaro per farlo crescere perché ne hanno capito il potenziale di crescita e di ritorno economico. La Francia, la Nuova Zelanda e l’Inghilterra giocano ormai un altro sport quando si parla di femminile, mentre unions come la SARU in Sud Africa stanno ancora cercando di capire come fare per valorizzarlo, forse colpevoli di un certo daltonismo di genere. L’Italia, in tutto questo, ha saputo capitalizzare bene l’opportunità datale dal Sei Nazioni femminile, che ha però danneggiato la Spagna che prima ne era parte. Quando, per uniformare i tornei maschile, femminile e U20, venne esclusa la Spagna per far entrare l’Italia, ci sentimmo tutti un po’ sporchi dentro. È vero però che se la vita ti dà limoni tu devi fare limonata a go-go, e così abbiamo saputo fare anche grazie al lungo regno in cabina di regia di Andrea Di Giandomenico (2009 – 2022). Nel campo femminile, l’Italia non è sicuramente il fanalino di coda del Sei Nazioni come lo è nel maschile, riuscendo a intimorire sostanzialmente tutte le avversarie e anche a togliersi qualche sassolino di lusso dalla scarpa come la recente vittoria contro la Francia. Al contempo è stata riformata anche la cima del movimento italiano femminile creando il campionato di eccellenza femminile, che ha visto fra le varie cose anche la ultimata fusione fra Benetton Rugby e Red Panthers, club femminile più titolato d’Italia ma decaduto nell’ultimo decennio. Quest’ultimo progetto non ha ancora dato i frutti sperati e sta navigando in acque turbolente nel campionato italiano con sconfitte pesantissime a 0 punti, ma va visto comunque come una cosa positiva sul lungo periodo. L’ingresso di capitali importanti come quelli di Benetton Rugby nel torneo femminile e l’accorpamento a una franchigia non può che essere infatti segnale di una crescita di interesse, che potrà in qualche anno portare altri a fare la stessa cosa. In più, lo URC sta pensando di istituire un torneo femminile professionistico al quale il Benetton Rugby potrebbe provare a partecipare allestendo una franchigia femminile parallela a quella maschile, se la FIR lo riterrà opportuno. Nel complesso, c’è da essere soddisfatti.

Ma quindi, a che punto siamo?
Tirando le somme, possiamo dire che in 23 anni di Sei Nazioni (che funge un po’ da anno zero nella nostra cronistoria) abbiamo imparato molte lezioni. Abbiamo strutturato un percorso di elite non senza difficoltà, ma ci siamo riusciti. Lo abbiamo adattato alle esigenze del momento e cambiato non impuntandoci su soluzioni poco proficue. Questo ha portato nel tempo a tramutare la nostra U20 in una vera e propria forza con cui fare i conti per tutte le altre U20 del Sei Nazioni di categoria, vincendo partite importanti come quelle dell’anno scorso contro Inghilterra e Galles, e diventando una squadra ostica per tutti. Segnale, questo, di un’innalzata qualità dei giocatori che ogni anno vanno a rimpolparla. C’è un neo, però, ed è l’U18. L’ultima uscita dell’U18 contro la Francia ha evidenziato un abisso di distanza fra noi e i colleghi transalpini, con la nostra U18 ad essere la prima formata nel nuovo ciclo dei poli di sviluppo. Al netto degli stop agli allenamenti dovuti al covid, che però vale anche per i francesi, dobbiamo prendere atto che il confronto è stato impietoso e che forse qualcosa va aggiustato. Nulla di irreparabile, basta avere la volontà di adeguare le proprie strategie. In ambito femminile abbiamo dato continuità ad un progetto a lungo termine con Andrea Di Giandomenico, portandolo a diventare il ciclo più vincente di tutte le nazionali italiane degli ultimi 30 anni, valorizzando atlete al punto da farle arrivare a 100 caps con la maglia azzurra in un contesto a malapena semi-professionistico. In termini di club rugby abbiamo portato almeno uno dei due club professionistici (il Benetton Rugby) ad essere competitivo sul piano internazionale per quanto riguarda il livello che gli compete in termini di capacità economica. Ora mancano le Zebre per averne almeno due. Dobbiamo invece ancora lavorare sul campionato domestico e trovargli una collocazione nel “palinsesto” del player pathway perché al momento rischia di sembrare una costola laterale del percorso di sviluppo atta più a parcheggaire gente che a farla crescere. Penso di parlare a nome di molti se dico che vorrei vedere un Top10 fresco e ricco di giovani promettenti cercando di indovinare chi sarà il prossimo che spiccherà il salto. In parte è già così, ma non è questo il modo in cui viene venduto a noi spettatori. Si può dire, insomma, che siamo a metà del percorso, ed è una cifra compatibile con quello che ci dice la storia: sebbene i tempi fossero totalmente diversi, quando più di cent’anni fa la Francia venne inclusa nel torneo diventando il Five Nations, gli ci vollero 50 anni per diventare competitivi, e guardali oggi come vincono a Twickenham volando sulle ali dell’entusiasmo. Magari un giorno anche noi.

Un pensiero riguardo “In vent’anni siamo migliorati, ma siamo a metà del guado”