Il 28 Maggio alle 17:15 allo stadio Lanfranchi di Parma andrà in scena, per il secondo anno consecutivo, il derby d’Italia fra Padova e Rovigo in finale di Top10. Sempre per il secondo anno consecutivo le quattro squadre finaliste ai playoff sono le stesse: Padova, Rovigo, Valorugby, Calvisano. Più in generale, queste quattro squadre con aggiunte Fiamme Oro e talvolta Mogliano e Viadana sono le uniche che si siano giocate i primi quattro posti negli ultimi anni. Il derby d’Italia come sempre promette spettacolo con due tifoserie così rivali e così accese, e a chi come me tifa Benetton Treviso non può che venire un minimo di nostalgia per quando i derby li giocavamo anche noi, principalmente per il senso di appartenenza che generano in una comunità che si stringe attorno a una squadra. Senso di appartenenza, un concetto che si sente spesso nominare all’interno del mondo rugbistico italiano come qualcosa da recuperare e sfruttare per rilanciare un movimento che ha vissuto una brutta decade. Il primo passo sarebbe sicuramente quello di capire come meglio utilizzare una risorsa piena di potenziale come il Top10 nel contesto del rugby italiano. Al momento, all’interno del Top10 giocano giovani molto promettenti (e.g. Gesi, Albanese, Nicotera, Izekor) nonché esperti ex-giocatori delle franchigie (e.g. Tebaldi, Sgarbi, Sarto, Derbyshire). Ad essi si aggiungono anche atleti stranieri (Van Reenen, Lyle), segno che il campionato ha una certa potenzialità di attrarre anche atleti stranieri sotto le giuste condizioni. Questo mix ha un potenziale enorme, ma viene offerto al pubblico in un contesto vecchio e povero di stimoli, incapace di attrarre nuovi spettatori. A chi ci si avvicina in questi anni, insomma, appare più come un campionato morente che una fucina di talenti. Ciò che gli manca è infatti una missione ben precisa e una strategia di marketing adeguata.

Una meta che ha fatto la storia.

Un passato da campionato importante

Il nostro campionato negli anni ’90 attraeva giocatori di grande talento da nazioni rugbisticamente all’avanguardia come Nuova Zelanda, Australia e Inghilterra. Si trattava di un periodo diverso, fatto di rugby pane e salame come si suol dire, poco professionismo molto agonismo. C’erano però molti più investitori privati, fra i quali spiccavano Berlusconi e Benetton, che permettevano alle squadre di dotarsi di campioni di spessore e generare molto seguito. La classifica della stagione ’95-’96, ad esempio, vede squadre come Milan, Benetton, Roma, L’Aquila, Petrarca, Rovigo, che si davano battaglia per il titolo con rose ricche di giocatori forti. Basti pensare che nel 1997 il Milan, che oggi non esiste nemmeno più, battè il Leinster 33-32. Il mondo del rugby è cambiato radicalmente da allora, e con esso anche le condizioni per il successo. L’ingresso nel Sei Nazioni a partire dal 2000 ci ha dato un’inizione di cash e fiducia, ma in questo salto di qualità il nostro movimento ha faticato a reggere il passo nella decade 2000-2010, perdendo via via i suoi pezzi pregiati, ed arrivando alla fine a decidere di portare due squadre nell’allora Celtic League per tentare di tenere il passo dei grandi. Si tratta di una mossa che il movimento non ha ancora finito di digerire, perché se è vero che ci ha permesso di avere almeno un nugolo di atleti abituati a giocare fra i professionisti di prima fascia, è altresì vero che è stata la pietra tombale del campionato domestico. Nella decade 2010-2020, il domestic ha perso via via importanza fino a finire relegato a delle dirette youtube per qualche centinaio di persone, nell’indifferenza generale dei più. Il covid non ha ovviamente aiutato, ma adesso è giunto il momento di decidere cosa fare di questa competizione ricca di potenziale mal sfruttato. Un campionato domestico è, infatti, una risorsa importantissima della base di un movimento, come hanno capito in Scozia creando il Super6.

I festeggiamenti allo stadio Plebiscito di Padova dopo la vittoria in extremis del Rovigo nella finale del 2021.

Dove sono le grandi città?

Parlando di investitori privati, essi per forza di cose spesso si trovano dove vive tanta gente. Eppure guardando il massimo campionato italiano no c’è traccia di città come Firenze, Torino, Milano, Napoli o Palermo per dirne alcune. C’è Roma, ma non certo ai piani alti, e le Fiamme Oro contano fino a un certo punto considerato che sono una squadra associata al corpo di polizia. La speranza di molti romani è nella Capitolina, che si gioca la promozione in Top10 con il CUS Torino e il Valsugana Padova, ma è troppo poco da parte della capitale. Non solo: soltanto 6/10 squadre del Top10 sono capoluoghi di provincia, visto che Colorno (9,000 abitanti), Viadana (19,000), Mogliano (27,000) e Calvisano (8,500) sono piccoli centri abitati. Il rugby è in mano alle piccole città, che non è di per sè un male, ma così fatica ad essere efficiente nel raccogliere talenti. Fra tutte queste, la più colpevole delle assenti è certamente l’Amatori Milano, che detiene 18 scudetti nonostante non esista più da 11 anni. Se potessimo ridisegnare da zero la geografia del rugby domestico, le dieci squadre sarebbero ovviamente posizionate in città di medio-grande dimensione o ricche di tifosi e seguito, tali da attrarre più investitori, pubblico, attenzione mediatica e praticanti. Non è un caso che una città come Padova, che vive per il rugby, ha la concreta possibilità di avere due squadre nella massima serie nella prossima stagione (Petrarca e Valsugana). La media dimensione (235,000 abitanti) unita alla passione per la palla ovale fa sì che i praticanti siano tanti e l’interesse del pubblico elevato. Allo stato attuale delle cose non si può sperare in lauti incassi se la popolazione di un paese che dovrebbe riconoscersi nella squadra che gioca è inferiore al numero di seggiolini negli spalti. Questa non è, ovviamente, una colpa dei club di piccoli centri abitati, che invece sono esempi virtuosi di come si possa puntare al vertice pur avendo un bacino ridotto.

Lo stadio del Rugby Colorno, che ben esemplifica la piccola dimensione e la bassa capacità, dovute ovviamente al piccolo centro abitato che rappresenta.

L’ingresso in Celtic League ha creato una frattura

Questo è forse il tema più scomodo. Ci tengo a dichiarare che non intendo offendere nessuno, ma solo offrire un punto di vista e stimolare una discussione. Io sono un grande sostenitore delle franchigie, e questo a prescindere dal fatto che una delle due sia la squadra che tifo. Credo davvero nel progetto perché ha dato al rugby italiano un confronto settimanale con alcune delle migliori squadre d’Europa. La mia sensazione è, però, che la presenza fra le franchigie di uno specifico club (Treviso) un tempo rivale delle altre big, sia la radice della frattura nel rugby italiano. I tifosi di grosse realtà afferenti al Top10 (Padova, Rovigo, etc.) si sentono esclusi dal rugby che conta, ma comprensibilmente non tiferanno mai per un club che non è il loro. Immaginate se si fosse fatta la superlega di calcio, e avessero chiesto a tutti di tifare Juventus. Le rivalità fra club sono talmente accese che molti piuttosto avrebbero smesso di guardare il calcio. Le squadre di Top10 più tifate da un lato rivendicano legittimamente la loro autenticità e storia al di fuori del progetto celtico, ma dall’altro in più occasioni han provato a unirsi ad esso quando le Zebre hanno mostrato segni di cedimento. Siamo di fronte a un problema difficile da risolvere, perché il progetto celtico ha senso solo se o ci vanno i migliori club, o ci vanno delle selezioni ad hoc di atleti di vari club. La nostra classica forma ibrida all’italiana per accontentare tutti e nessuno non sta rendendo quanto sperato. Le opzioni, a mio modo di vedere, sono tre: 1) portare la seconda franchigia in un club economicamente capace, ossia Padova o Rovigo a meno di scese in scena di imprenditori importanti; 2) portarla dove ci sono molti abitanti, ovverosia Roma o Milano; 3) eliminare le franchigie e reinvestire solo nel massimo campionato. Io, fra queste, preferisco le prime due, ma sono tutte posizioni legittime con dei pro e dei contro.

Un immagine di Leinster-Munster, da sempre un partitone. Leinster e Munster sono due selezioni regionali delle omonime regioni, che raggruppano i migliori giocatori dei club delle due regioni irlandesi. Hanno le loro academy e sono i veri e propri poli di sviluppo del rugby di ciascuna regione, ma non rappresentano nessun club pre-esistente.

Consapevolezza della propria natura

Al momento, invece che essere un ingranaggio pulsante che fa da base all’alto livello, il Top10 viene percepito quasi come una protuberanza che si estende lateralmente offrendo una realtà rugbistica alternativa ad esso. Chiaramente non è così negli intenti della federazione ma lo è nella percezione degli spettatori e degli appassionati. Si tratta di una realtà tutto sommato virtuosa in termini di tifo, ma collocata in uno scaffale del negozio poco in vista. Un po’ come Balto, per chi come me è cresciuto negli anni ’90, il Top10 non è cane, non è lupo; sà soltanto quello che non è. Questo deriva larga parte da come ci viene proposto. La narrazione intorno al Top10 è vecchia, aggrappata a ciò che era una volta, ai miti di funamboli transitati dalle nostre parti durante la loro off-season negli anni ’80 e ’90. Nel 2022 si parla ancora dei grandi del passato, perché dal 2010 quando il progetto celtico è entrato in scena, il campionato di Eccellenza, Super10, Top12 o Top10 che dir si voglia non è stato valorizzato e ha perso attrattiva. Per generare seguito la narrazione è tutto: se lo definisci come “il vero rugby italiano!” si crea una competizione con le franchigie che non fa bene a nessuno, anche perché il “prodotto Top10” non può competere con il “prodotto URC” in termini di qualità, per ovvie ragioni economiche. Se, però, si provasse a vendere il Top10 come “il laboratorio del rugby italiano”, dove si sperimentano le idee tecniche e tattiche senza paura di compromettersi, dove si lanciano i giovani, dove si arriva per meriti e ci si mette in mostra, allora si attrarrebbero più persone. A meno che non si voglia terminare l’esperienza-franchigie, bisogna che il campionato domestico perda quell’aura stantìa di vecchia gloria. Siccome investitori privati pronti a mettersi nel rugby italiano ce ne sono pochissimi, bisogna che il campionato domestico si rilanci come una realtà nuova totalmente consapevole di che cos’è e di cosa può offrire, e con un progetto semplice e chiaro da offrire nel panorama rugbistico del paese.

La meta che ha condotto Rovigo alla vittoria dello scorso campionato.

Sfruttare il senso di appartenenza

Il Real Betis Balompié ha visto negli ultimi giorni i suoi tifosi organizzarsi per un crowd-funding per trattenere Hector Bellerìn, in scadenza contratto, a Siviglia. Il Basket a Treviso, dopo la fine del Benetton Treviso che tanto aveva vinto, è stato rilanciato grazie a un progetto di azionariato popolare. Real Madrid e FC Barcelona hanno un sistema che permette ai tifosi di essere azionisti della propria squadra. Cos’hanno in comune queste realtà? Lo spirito di appartenenza a un gruppo e un luogo, un amore sconsiderato per la maglia, e una forte identità. In Italia il rugby è totalmente scevro da queste logiche salvo alcuni rari casi. Qualcuno dirà che il rugby non è il calcio e il tifo è diverso, ed è vero, ma non nascondiamoci, in Francia è tutto un altro mondo in termini di attaccamento alla propria squadra di rugby. L’attaccamento, o l’appartenza che dir si voglia, è un sentimento estremamente monetizzabile da una lega sportiva e dalle società. Chi ama la squadra andrà allo stadio, comprerà la maglietta, ne parlerà bene agli amici, e va tutelato. Facciamo un esempio virtuoso: la cultura di club che c’è in Argentina. Mai vista una partita del Top12 de l’URBA? Si tratta del torneo delle 12 squadre della zona di Buenos Aires, neanche di tutta la nazione, ma viene sentita al pari di una finale di Heineken Cup e la compagine di tifo è da mettere i brividi. Se crei una cultura, dai un senso alle sfide, sfrutti le rivalità e la competitività naturale che c’è fra le squadre crei interesse, il cosiddetto buzz mediatico, e la gente viene a vedere che cosa sta succedendo. Arrivano investitori, telecamere, pubblico curioso, e crea una narrativa avvincente dove prima c’era il nulla. Pensate a quel che è il derby d’Italia fra Padova e Rovigo, a quanto pubblico attrae, all’attesa fremente che c’è nelle due città prima della sfida. Ora immaginate lo stesso spirito trasposto in una sfida fra club di Milano, di Torino, di Roma, o del Sud Italia, e a quante persone potrebbero venire allo stadio a vedere la partita. Il Top10 avrebbe tutto questo potenziale, ma è quasi totalmente inespresso.

La finale dell’URBA del 2019.

I contratti non offrono abbastanza garanzie lavorative

Se quello delle franchigie era il tema più scomodo per i tifosi, questo è il più scomodo per la federazione e le società. C’è una pletora di giocatori U23 che potrebbe ritagliarsi uno spazio nel Top10 se ci fosse un paracadute economico, sociale, e formativo pronto a sostenerli. I contratti offerti ai giocatori, però, sono poco attraenti dal punto di vista professionale. Che io sappia, ma qui ringrazio i colleghi di Barba Ovale e di OhVale Rugby Blog, i contratti di Top10 e in gran parte anche delle franchigie non valgono ai fini dell’età pensionabile, non permettono il sussidio disoccupazione se il contratto scade, e offrono pochissime garanzie al giocatore. Per chiunque faccia qualsiasi lavoro, è essenziale avere delle tutele da questi punti di vista. Se non ti rinnovano il contratto non resti in mezzo a una strada ma percepisci un sussidio di disoccupazione. Se ti chiedono i tuoi lavori a un colloquio, i cinque anni che hai giocato a rugby non sono un buco nel CV ma una valida professione svolta. Quando andrai in pensione, quei cinque anni conteranno al raggiungimento dei 35 anni di contributi. Non c’è da stupirsi se tanti ragazzi smettono: se non riescono ad arrivare al vertice, la vita che gli si prospetta davanti è quella di un mestierante pagato male e con poche tutele. Meglio far fruttare quel diploma dell’istituto tecnico, a questo punto. Questa logica, fuori dallo sport, sarebbe sacrosanta: io ho conseguito il mio dottorato di ricerca lavorando 40 ore alla settimana per 4 anni. Non mi è valso ai fini dell’età pensionabile, però, perché il dottorato viene visto come una borsa di studio. Ugualmente nel rugby, molti giocatori smettono per carriere più remunerative perché spesso non ne vale la pena. Già nella seconda divisione francese, il ProD2, gli atleti sono inquadrati professionalmente e hanno invece tutti questi diritti. Non stupisce che chi dall’Italia è arrivato da quelle parti, come Gori o Campagnaro, non voglia andarsene. Sciogliere questo nodo creerebbe nel Top10 una realtà valida per rilanciarsi, stabile economicamente, e ambita anche da talenti esteri, elevandone globalmente il livello.

Edoardo “Ugo” Gori in azione con la maglia del Colomiers in ProD2.

Avvalersi dei giocatori esperti

A parte i giovani U23, un’altra categoria che può dare molto al Top10 è quella dei giocatori over 30 (O30) a fine contratto in una delle due franchigie. Questi giocatori andrebbero invogliati a tornare nel Top10 e giocare ancora 5-6 anni a buon livello, portando saggezza ed esperienza internazionale. Quanto può beneficiare un giovane giocatore allenandosi con Tito Tebaldi od Alberto Sgarbi? Molto, chiaro, però gli O30 di ritorno nel domestico andrebbero invogliati economicamente, non solo a parole. Con la prospettiva di altri 5-6 anni a fare da chioccia ai nuovi talenti, pagati bene anche per la loro esperienza, e inquadrati in modo professionale e non solo atletico, molti di essi continuerebbero a giocare contribuendo a innalzare il livello del campionato. Non si può chiedere alle società di pagarli di più, punto e basta. I soldi e le garanzie devono arrivare dalla federazione, che deve essere capace di strutturare dei contratti professionali per questi atleti e anche per quelli delle franchigie, che non sono molto migliori. Non dobbiamo sorprenderci se chi può va via, perché non tutti sono così radicati nel proprio club e territorio da accettare qualsiasi condizione lavorativa. A mio modo di vedere, quella dei contratti è uno dei maggiori nodi da risolvere della FIR se vuole avviare il Top10 verso una dimensione moderna e competitiva, capace di attrarre un maggior numero di giocatori giovani, oppure esperti navigati, e di talenti esteri.

La carriera di Alberto Sgarbi rivissuta da lui stesso.

Un esempio virtuoso: la NCAA americana

Un bellissimo modello di sviluppo-giovani è quello che avviene negli Stati Uniti con le associazioni collegiali come la NCAA. In quel caso il senso di appartenenza deriva dall’essere inserite nelle scuole, e la ricchezza di atleti si fà un po’ da sè perché i college selezionano i migliori atleti a livello di High School e offrono loro delle scholarships, ossia delle borse di studio. Gli spalti gremiti derivano dal fatto che ogni studente tifa per la propria scuola in un sistema virtuoso che genera grandi ricavi. Dopo qualche anno di campionati collegiali, a volte anche solo uno, i giocatori possono dichiararsi eleggibili per il draft NBA, e se selezionati, vanno incontro a una carriera da veri professionisti, con tutti i suoi crismi e non all’acqua di rose. Se il Top10 fosse una realtà professionistica potrebbe offrire contratti pro e borse di studio. Il senso di appartenenza andrebbe cercato nelle comunità locali, e in tal senso, le grandi città (Milano, Torino, Firenze, Napoli, Bologna, Palermo) con il loro grande bacino di abitanti sono colpevolmente assenti dall’equazione. Ipotizzando un sistema di draft come già proposto dal presidente Innocenti in campagna elettorale, le squadre di Top10 avrebbero accesso annualmente a un vero e proprio lottery pick dei giovani dei neonati poli di sviluppo. Ai fortunati selezionati, una borsa di studio e un posto dove stare, in cambio di prestazioni sul campo e la promessa di un futuro da professionista. Giocando in un Top10 di questo tipo, i giocatori andrebbero a mettersi in luce per entrare in una delle franchigie. Attorno a loro, a completare le rose, giocatori esperti e talenti stranieri per assicurare esperienza e stabilità al campionato. Sarebbe affascinante e unico nel panorama internazionale, dando struttura alla base del movimento come mai finora si è visto. Ma serve, ovviamente, il benestare di tutti, e questo in Italia è spesso quasi impossibile.

A questo articolo hanno contribuito anche Marco Jr Barbagli (Barba Ovale) e Valerio Bardi (OhVale Rugby Blog).

Il tipo di folle che attira il basket collegiale americano, che non è nemmeno il basket di primo livello essendo solo lo step prima dell’NBA. Con un marketing adeguato, si genera il giusto ascolto.

2 pensieri riguardo “Il Top10 deve guardare al futuro

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