Il Sei Nazioni è un appuntamento fisso del calendario di ogni appassionato di rugby. Quando arriva gennaio, mentre si giocano gli ultimi turni dei gironi di coppa, si inizia già a pensare chi verrà convocato e chi no, chi è infortunato, chi avrà una chance di mostrare il suo talento. Ma ci sono dei volti che sai già che rivedrai, quasi come degli amici, o dei personaggi di una serie TV che va avanti da tantissime stagioni a cui sei però molto legato. Ci sono squadre, dinamiche, discussioni e dibattiti che tornano ciclicamente, un anno più vecchi, per vedere se la platea ha cambiato idea. Uno di questi temi è “chi indosserà la 10”? Nell’ultima decade, è una domanda che nessuno si è posto più degli italiani.

Diego Dominguez, storico 10 dell’Italia (RBS 6 Nations)

Una decade di grandi aperture 

Negli ultimi 10 anni, l’arrivo del Sei Nazioni portava con sé una serie di personaggi fissi, quasi tutti con la 10 sulle spalle. Dan Biggar sempre a parlare con l’arbitro e con il suo balletto prima di calciare. Owen Farrell e l’attitudine a placcare al limite, col suo sorriso beffardo entrato nella storia nella semifinale contro gli All Blacks. Johnny Sexton, glaciale e chirurgico, ma sempre decisivo. Finn Russell, imprevedibile come i rimbalzi della stessa palla da lui calciata. 

Nel Sei Nazioni 2025, il solo Finn Russell è ancora su questo palcoscenico. Sexton si è ritirato e la 10 verde sta ballando fra le spalle di Sam Prendergast e quelle di Jack Crowley, con preferenza sulla giovanissima apertura di Leinster. Il Galles ha perso praticamente tutti i suoi gioielli della decade d’oro e la 10 è ancora incerta, con il classe 2001 Sam Costelow alla ricerca di conferme. Owen Farrell è andato a giocare in Francia, e non è stato selezionato per la nazionale, vedendo l’ascesa di Marcus e Fin Smith, giovani assi della mediana. 
In Italia, invece, negli ultimi 10 anni il ruolo di mediano di apertura è stato coperto da ben dodici interpreti. Partendo dal 2015: Tommaso Allan, Kelly Haimona, Luciano Orquera, Carlo Canna, Edoardo Padovani, Matteo Minozzi (anche se poi giocò estremo), Ian McKinley, Antonio Rizzi, Paolo Garbisi, Giacomo Da Re, Leonardo Marin, Giovanni Montemauri. Oggi, però, il 10 ce l’abbiamo: al Sei Nazioni giochiamo con Garbisi e Allan, e questa situazione potrebbe durare fino al mondiale 2027.

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Tommaso Allan al suo primo Sei Nazioni nel 2014 (Rugby World)

Trovare continuità 

È scontato dire che un mediano di apertura deve giocare per rendere. Si può dire di qualsiasi ruolo, è un po’ come dire che ci vuole fisicità per vincere una partita. Ma proprio perché è un’ovvietà, è anche la verità. Il Sei Nazioni è un torneo complesso, lungo, fisicamente probante, capace di testare un giocatore in maniere non sempre anticipabili. Nelle sue sette settimane di durata, i giocatori passano poco tempo con le loro famiglie. Stanno più lontani dalla società del resto dell’anno, come in isolamento, e ogni problema fisico o mentale rischia di essere amplificato per dieci. 

Se è vero che la coppia di mediani di una squadra ne dirige il gioco, è allora essenziale che questa coppia si conosca bene e sappia interpretare le partite congiuntamente. Conoscere le abilità dell’altro per poterle esaltare è essenziale. Se Garbisi non è abituato ad avere all’ala Capuozzo o Lynagh, capaci di prendere un calcio in volo e fare un grounding vicino alla bandierina, non tenterà quel calcio. Un esempio è il calcio-passaggio a Menoncello contro la Francia nel Sei Nazioni 2022, dove Menoncello, quel giorno all’ala, fa un grounding sulla linea quasi da football americano pescato a meraviglia da Garbisi. In un altro esempio, se Page-Relo non conosce i tempi di calcio di Garbisi non rischierà di passargliela per far sì che calci, liberando la pressione. 

Thomas Ramos, piazzatore infallibile della Francia (The Independent)

Nel rugby moderno, poi, c’è un’altra variabile da mettere nell’equazione: il triangolo allargato di tutte le squadre forti è ad oggi dotato di almeno un kicker abile, se non due. Giocatori come James Lowe, Hugo Keenan, Blair Kinghorn, ma anche dei 10 adattati a estremi come Thomas Ramos e Marcus Smith sono imprescindibili per squadre come Irlanda, Francia, Scozia e Inghilterra. È diventato dunque essenziale avere anche un estremo capace di calciare come un 10 all’occorrenza. Proprio per questo motivo, Quesada sta investendo molto nel far trovare la continuità al terzetto Page-Relo – Garbisi – Allan, come 9, 10 e 15 rispettivamente. Con questa configurazione si son raggiunti i migliori risultati e il kicking game durante la partita è apparso di buon livello.

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Vedere lo spazio 

Che il kicking game sia essenziale nel rugby di oggi non ce lo siamo inventati noi. Negli ultimi dieci anni, il rugby è cambiato più di quanto non sia cambiato nei vent’anni precedenti. Il professionismo ha portato un innalzamento senza eguali delle capacità fisiche, atletiche e tattiche dei giocatori, portando a un’esacerbazione della pressione difensiva sulle squadre che attaccano. Uscire da questa pressione è diventato dunque essenziale per ogni squadra che voglia vincere una partita. 

Non si tratta di idee nuove di zecca: già negli anni ‘90 e a inizio 2000 molte squadre adottavano la strategia del calciare dalla base dopo 2-3 fasi liberandosi del possesso e portando la pressione difensiva sull’altra squadra. Non c’era, però, la stessa attenzione al dettaglio che c’è oggi nel punto in cui si calcia e con che scopo. 

In questo video d’annata, si può vedere come il San Donà nel 1990 facesse esattamente questo gioco, già dai primi highlights della partita.

Il modo più comune di effettuare questa giocata è un calcio dalla base, fondamentale nel quale il nostro Martin Page-Relo eccelle (va detto, a differenza di Alessandro Garbisi e Stephen Varney). Il mediano di mischia raccoglie il pallone, a volte aiutato da un caterpillar di giocatori per aumentare la distanza dalla linea del fuorigioco, e calcia alto e lungo prima che i difensori possano raggiungerlo per bloccarne il calcio. Un compagno da dietro di lui inizia a correre e va a contendere il possesso in una presa aerea. Il risultato è che il gioco si è spostato 15-20 metri più avanti, e la squadra può riorganizzarsi. 

Bisogna essere rapidi per fare questo tipo di azione e non tutti i 9 lo sono: Antoine Dupont per esempio, il migliore fra i mediani di mischia del mondo da vari anni, effettua un calcio dalla base quasi sempre dietro un caterpillar di due o tre giocatori, probabilmente sapendo di non essere il più rapido nell’effettuare il gesto. La mancanza di un buon box-kicker è stata a lungo una lacuna grossa dell’Italia, incapace di uscire rapidamente dalla pressione difensiva, e sempre costretta a rifugiarsi nel 10 come unico piede a disposizione. Per gli avversari, bloccare l’uso del piede contro di noi era piuttosto facile fino a qualche anno fa.

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Gatto e topo

La salita di una difesa ben organizzata solitamente lascia scoperta la corsia esterna, in quanto si cerca di effettuare un blitz e fermare la trasmissione del pallone prima che giunga all’esterno. In questi casi, se l’apertura si rende conto che la palla non esce a causa di una pressione asfissiante, tenterà di piazzare il pallone alle spalle del triangolo allargato avversario, solitamente nel lato dove l’ala è salita di più per raddoppiare sull’uomo. 

Si tratta quasi di un’azione da pesca, passatemi il termine. La squadra che attacca cerca infatti di far salire la difesa abbastanza da poter piazzare alle loro spalle, come un pescatore con l’esca attaccata all’amo, dove l’esca è la possibilità di recuperare il pallone con un turnover o un intercetto. L’introduzione della regola sulla 50-22 non ha fatto che agire da stimolo per vedere sempre di più questo tipo di giocata. 

Proprio in questo fondamentale, Paolo Garbisi è un asso già dai suoi primi anni da professionista. Difficile dimenticare la sua performance nella finale di Rainbow Cup contro i Bulls, dove il miranese fece impazzire Chris Smit e il triangolo allargato di sudafricano coi suoi calci perfetti dietro la linea della difesa (invito a vedere i primi 5 minuti di partita fino alla meta di Ioane).

La prima 50-22 della storia, ad opera di Nic White.

Pressione, errori, trasformazioni

Il calcio tattico non è però sempre legato alla possibilità di una 50-22. Molti appassionati occasionali non capiscono come mai la squadra in possesso del pallone calci, rinunciando al possesso. È un ragionamento “calcistico”, dato che nel calcio, risalire il campo è questione di secondi. Nel rugby, invece, l’asfissia fisica generata da una difesa organizzata è capace di tagliare le gambe ad una squadra. Cedere il possesso permette a una squadra di guadagnare terreno, pressare alto, e forzare l’errore avversario. 

Una squadra che attacca sotto pressione dalla propria metà campo rischia di venir imbrigliata in un “tenuto a terra”, di non riuscire a organizzare una trasmissione del pallone corretta, perdendo il pallone in avanti e portando a una mischia, o di non avanzare e infine calciare, regalando una touche agli avversari. Fra il calcio offensivo e quello di risposta, solitamente, se il primo è ben calciato, c’è un guadagno territoriale netto. 

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Squidge ci spiega perché le squadre calciano così tanto.

Nel caso di un calcio di punizione entrano in gioco i piazzatori. In passato, qualsiasi squadra avrebbe fatto leva sul suo 10 per tutto ciò che riguardava il piede. Ad oggi però non è più così: ci sono aperture che giocano a 15, estremi che sanno giocare apertura, mediani di mischia che piazzano bene, aperture che giocano primo centro. Le responsabilità al piede sono distribuite, incluse quelle dalla piazzola. Nella famosa vittoria italiana di Cardiff 2022, l’Italia poteva sfruttare i calci di Callum Braley (in posizione di 9), Paolo Garbisi (10), Leonardo Marin (12) e Edoardo Padovani (14). 

Nel caso dell’Italia, quando il calcio è da posizione mancina se ne occupa solitamente Paolo Garbisi. Per quasi tutto il resto, c’è Tommaso Allan con la sua media di calci piazzati da record. Lo stesso Allan, però, soffre i calci troppo distanti, i quali vengono normalmente rilevati da Martin Page-Relo, il mediano di mischia. Diventa dunque un rischio grosso per ogni avversario concedere all’Italia un piazzato, perché le opzioni non mancano e le capacità neanche.

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Ange Capuozzo schiaccia in meta la palla derivante da un bel calcio corto di Garbisi (The Guardian)

Futuro roseo?

Quest’Italia sta entrando nel suo prime. Il ciclo allenato da Quesada arriverà con ogni probabilità al mondiale 2027 in Australia nel pieno delle sue forze, capacità, e sviluppo. Abbiamo sviluppato una terza linea competitiva e profonda, una batteria di piloni di livello internazionale, e la coppia di centri Menoncello-Brex (o “Brexoncello” che dir si voglia) è indicata come la più tosta del Sei Nazioni. 

Abbiamo, però, anche sviluppato un gioco al piede, ed è forse la vittoria più grande e meno celebrata del sistema italiano. Avere tante opzioni al piede confonde le difese, riduce le scelte ovvie, e aumenta il rischio di errori difensivi esponenzialmente. Poter ricacciare indietro le squadre avversarie permette agli avanti di respirare, evitando di crollare dopo solo 55 minuti, come sarebbe accaduto ad un’Italia d’annata. Permette, inoltre, di rimanere agganciati alle partite nel punteggio anche quando l’attacco segna poche mete. E nel rugby di oggi, può essere la differenza tra vittoria e sconfitta.

2 pensieri riguardo “La continuità in mediana ha elevato il gioco al piede azzurro

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