Il 4 Maggio 2024 alle 16:00 si giocherà la semifinale di Challenge Cup fra Gloucester Rugby e Benetton Rugby. Per Treviso si tratta della seconda semifinale in due anni, un ottimo riconoscimento al lavoro svolto da Marco Bortolami come head coach. Dall’altra parte della barricata ci saranno però i suoi vecchi colori, il cherry & white che ha vestito dal 2006 al 2010 anche come capitano.

L’idea di questa chiacchierata dunque nasce proprio da lì, dal voler chiedere a chi conosce Gloucester meglio di tutti, nel rugby italiano, cosa possiamo aspettarci ma anche narrare quelle che sono state le sue esperienze lassù. E proprio da lì partiremo.

Per l’intervista integrale, dove si è parlato anche di Benetton, Zebre e Petrarca, vai su Spotify:


Immagino che sia una partita dal sapore speciale per te.

Sarà un’occasione particolare, sono già stato due anni fa quando ci abbiamo giocato contro in Challenge cup. Ritrovo un ambiente dove ho vissuto 4 anni della mia vita speciali, ho dato molto e ricevuto molto. Sono molto motivato, ovviamente le emozioni verranno un po’ accantonate il giorno della partita ma sarà un’occasione speciale.

Sarà previsto qualche tipo di riconoscimento dato che sarai lì?

Da quest’anno hanno instituito una hall of fame degli ex giocatori e quest’estate mi avevano contattato per partecipare a un evento, ma il focus sarà per i giocatori in campo. È la loro partita, io aiuterò la squadra a prepararla nel migliore dei modi ma non ci sarà qualcosa che mi riguarderà. Io ormai appartengo al passato, sono volentieri in secondo piano e l’importante è che la squadra si giochi le sue carte.

Quest’anno la squadra sembra molto cinica, magari crea meno ma normalmente concretizza molto.

Si dice che siamo opportunisti, e per me è uno dei complimenti più grandi. Per come vedo io il rugby, non puoi prevedere le singole azioni negli 80 minuti. Per cui quel che puoi fare, la cosa più importante, è allenarti a sfruttare ogni situazione che ti capita sotto mano perché non sai se e quando ti ricapiterà. I giocatori riescono a cogliere le opportunità che hanno di fronte ma hanno anche un canovaccio abbastanza chiaro che possono applicare in campo per giocare. Se la squadra sta andando in questa direzione, e se così viene visto da fuori, a me fa molto piacere. I margini di crescita sono enormi, per cui questa sarà una trasferta molto impegnativa.

Sportal.eu

Preparando questa intervista ho trovato un articolo del 2007, del tuo periodo a Gloucester (2006-2010), che titola “Bortolami fury at poor half”, le parole che dissi sono molto simili a quelle che hai appena detto. Parlavi già un po’ come un allenatore.

I 4 anni che ho giocato lì mi hanno messo alla prova, all’epoca era il campionato di riferimento [Gloucester terminò prima in stagione regolare, ndr], c’erano i migliori giocatori al mondo. C’erano giocatori come Carlos Spencer, Justin Marshall. L’esperienza lì mi ha sicuramente dato degli aspetti che fanno parte di me adesso, ma non tutti perché il mio vissuto in Italia e Francia, il rientro in Italia [nel 2010] mi hanno formato.

Non c’è qualcosa che si cristallizza… almeno per me è così, è stata una pietra miliare nella mia formazione e mi ha dato un approccio al rugby diverso. Gli inglesi sono pragmatici, vanno per il sodo, prima la sostanza e poi la forma. Questi aspetti sono in linea con il mio carattere, lì li ho assaporati a un livello altissimo.

Inoltre c’è da menzionare anche il rapporto con Dean Ryan, che all’epoca era il coach. Ci sono degli aspetti degli anglosassoni che noi non conosciamo bene, crediamo che di alcune cose non si curino. Con lui ho avuto un buon rapporto e mi ha fatto vedere alcune sfaccettature della gestione della squadra che mi hanno sicuramente formato.

Dean Ryan con i giocatori di Gloucester nel 2008 (Sky sports)

Primo giorno, sbarchi all’aeroporto, cosa stavi pensando e come ti hanno accolto? Come ti sei integrato?

Avevo 26 anni. L’allenatore mi ha voluto, ma probabilmente mi ha scoperto strada facendo. Mi hanno accolto con molto scetticismo e timidezza, ma giorno dopo giorno, allenamento dopo allenamento, mi sono ritagliato il mio posto. Non ricordo in realtà il mio primo allenamento, ma ricordo come fosse ieri il giorno in cui mi hanno chiesto di essere capitano dopo solo 3 mesi che ero nella squadra. Mi ha sorpreso, però mi ha anche dato una spinta incredibile per continuare a mettermi in gioco in un ambiente che non conoscevo. Io sono una persona a cui questo piace, e se trovo la possibilità vado.

C’è stato un millisecondo nel quale hai pensato “oh ca**o”?

[Ride} Non ti nascondo che è stato complicato… io parlavo inglese, parlare una lingua è un discorso ma farsi capire e far passare un messaggi come capitano è tutta un’altra storia. Ricordo esattamente le parole che mi disse: “non ho tempo di aspettare che ti integri con la squadra, voglio subito il massimo da te, oggi”. Me l’ha chiesto e questo mi ha spinto a provare. Abbiamo raggiunto una finale di Premiership, una semifinale, sono stati anni importanti anche per il club. Non ho avuto dubbi, quando mi butto mi butto e non mi guardo più indietro.

C’è una tua meta che testimonia questa tua attitudine, in effetti.

[Ride] Esatto.

La meta d’intercetto contro gli All Blacks.

All’epoca Gloucester era ai primi posti della Premiership, per cui immagino che ci fosse anche la pressione di dover essere all’altezza della prima della classe.

Si assolutamente, c’erano giocatori come Mike Tindall e Iain Bolshaw che avevano vinto il mondiale con l’Inghilterra. C’erano fior fior di giocatori, nel mio quarto anno anche Carlos Spencer per 6 mesi. Che mi venisse affidata questa responsabilità è stato pensare un po’ “out of the box” come dicono loro. Il pubbico però è stato incredibile, e siccome la squadra si esprimeva bene, il mio ruolo è stato apprezzato e riconosciuto da tutti pian piano. Sono anche stato fortunato ad arrivare in un club dove la dinamica era già in crescendo e io mi sono inserito.

Hai mai incontrato resistenze, diffidenze o stereotipi legati alla tua origine?

Da questo punto di vista più in Francia che in Inghilterra. Anche se a Narbonne sono stato benissimo [2004-2006] lo senti a pelle che c’è un po’ di resistenza. In Inghilterra devo dire di no, perché quello che ti viene dato e riconosciuto è perché te lo sei guadagnato. Questo è un qualcosa che proprio mi ha stregato fin dall’inizio. Dall’altro lato, questo vale fino a ieri e oggi te lo devi riguadagnare. È stato solo una questione di continuare a spingermi al meglio mettermi sempre in gioco, giorno dopo giorno, e questo è stata la cosa che ha fatto al differenza.

Fino a quando dimostri di valere il ruolo che hai, nella loro società ti viene riconosciuto. Quando molli un centimetro è evidente che le dinamiche cambiano. A livello di mentalità è qualcosa di impagabile. Questo è assolutamente quello che cerco di passare ai miei giocatori. Alle volte risulti scomodo, molto scomodo [ride] ma è in ogni secondo che tu sei in campo che devi dare il meglio di te stesso. Questo è assolutamente nel mio DNA, mi sono trovato a casa da questo punto di vista.

Sky sports

Parlando di valori di una società, non solo sportiva, in cui hai vissuto (quella inglese), c’è qualcosa che ti sei portato a casa da quell’esperienza, che ancora fa parte dei tuoi usi e costumi?

Mah, devo dire di no, sono abbastanza adattabile. Quando vivevo lì non vivevo da italiano all’estero, non ho mai vissuto di nostalgia. Si chiaro andavo al ristorante italiano ma non vivevo da italiano tipico. Di sicuro mi è rimasto un concetto fondamentale nella loro società, che è che se tu nella vita fai quello che devi fare presto o tardi arriva il riconoscimento.

Il mio sogno da ragazzino non era giocare per un club specifico o per la nazionale ma giocare in un club inglese, perché nella vecchia Tele+ mostravano le partite del campionato inglese. Quando ho avuto l’opportunità non ci ho pensato due volte. Andai in Francia perché era lo step intermedio per arrivare al campionato inglese. È stato un ambiente molto congeniale alle mie preferenze, non lo nascondo. Però è chiaro che mi ha testato e fatto esplorare le cose ancora più in profondità.

Come veniva gestita la vita privata dei giocatori al tempo? Potevi vivere per conto tuo dove volevi o c’era qualche tipo di luogo dove andavano a vivere tutti?

Sei libero ovviamente, loro ti pagano ma devi organizzarti completamente tu, massima libertà. Tant’è che vivevo in una cittadina vicina. Gloucester è una cittadina industriale molto sobria, mentre Cheltenham è molto più inglese, carina e posh. La maggior parte dei giocatori soprattutto da fuori vive lì, e questo non è visto benissimo dai tifosi in effetti. Devi scrollarti di dosso questo aspetto.

Sono andato su con la mia attuale moglie che mi ha seguito dalla Francia già. Nel mio ultimo anno là poi è nata anche mia figlia. Ricordo come fosse ieri le passeggiate al parco quando era piccola.

Six Nations

A proposito di memorie: parliamo di West Country Derby (Gloucester-Bath). Come si vive da giocatore, da capitano, e da nuovo arrivato?

Forse una delle partite che mi ricordo di più. Erano non so quanti anni che Gloucester non vinceva in casa con Bath, e il problema è che le due seconde linee di Bath erano Borthwick e Grewcock, due mostri sacri. Soprattutto Grewcock era un giocatore di una ruvidezza incredibile. Ricordo proprio la fisicità della partita, gli scontri, i piccoli falli sporchi che ancora nel 2006 venivano fatti perché non c’erano ancora le telecamere e la revisione digitale. Il primo anno venivo dal campionato francese che non era proprio l’acqua santa, e comunque ricordo chiaramente gli scontri e le ruck, un rugby d’altri tempi. Però abbiamo vinto per la prima volta dopo tanti anni il derby in casa e lo stadio era in estasi.

Da capitano è stato difficile gestire un derby così sentito?

Diciamo che con l’Italia ero già abituato a gestirlo, ma la difficoltà è che gli aspetti motivazionali di una squadra inglese sono agli antipodi rispetto a quelli di una squadra latina. La motivazione per un latino parte dall’identità di gruppo, dall’essere parte di un gruppo, e questo rafforza l’individuo. Per un anglosassone parte tutto dalla spinta individuale, che poi si somma con quella degli altri originando una performance di team.

A livello di quello che puoi dire in spogliatoio, di come cerchi di focalizzare i tuoi compagni, parti proprio da due estremità completamente opposte. Mi ha aiutato a crescere e mi ha messo alla prova, ricordo un’intervista che fecero al mio allenatore e gli chiesero perché avesse scelto me come capitano, e lui disse: “Marco ha tante qualità, e ho visto poche persone che in una situazione di pressione riescano a parlare in italiano, francese e inglese,  mantenendo la calma e facendosi capire da tutti”. Tanti aspetti più o meno pratici che mi hanno fatto crescere tanto.

Un’immagine dal West Country Derby con un Kingsholm Stadium completamente pieno (RBK)

Passando alla Gloucester di adesso, quella di Skivington e delle maul dirompenti, come vedi tecnicamente la squadra che devi affrontare?

Paradossalmente due anni fa quando Skivington ha preso in mano la squadra e sono stati così dominanti in maul abbiamo fatto una chiamata via zoom io e lui e gli ho chiesto un attimo un po’ di cose, come allenava la maul, che caratteristiche aveva. Curioso che ora ci troveremo uno contro l’altro. La maul sarà uno degli aspetti centrali della partita, come lo sarà anche contro Sharks, Ulster e Bulls.

Alla fine lo scontro frontale fra due pacchetti di avanti però è quello da cui non puoi mai prescindere. Se i tuoi giocatori non hanno quella componente affettiva di volersi imporre sull’avversario arriverai sempre secondo. Il grande lavoro sarà a livello tecnico, chiaramente, però poi la volontà e il desiderio dei giocatori di vincere questa lotta sarà fondamentale.

Il gioco al piede: anche loro usano molto il gioco al piede per risalire il campo, come noi. Anche là ci sarà battaglia. Il vecchietto Johnny May che debuttò a 19 anni in prima squadra quando io ero capitano sa dire ancora la sua, e non solo lui. Anche noi avremo delle frecce al nostro arco, dobbiamo tirarli fuori dalla loro zona di comfort.

Ci sarà poi una interessante sfida fra numeri 9 [Varney e Garbisi].

C’è sempre un equilibrio sottile fra la sfida individuale che vivi col tuo avversario, e quella di collettivo dove il collettivo deve essere superiore al collettivo avversario. Magari puoi essere pari o perdere una piccola battaglia per vincere una guerra, per cui come allenatore sono sempre molto cauto nello spingere su queste dinamiche, perché ogni parola può influenzare molto. Tutto dev’essere pesato col bilancino perché la squadra esprima il meglio di sè.

Non voglio aggiungere molto altro sul tema, ma spero che il giocatore migliore, che io non ho dubbi su chi è dei due, sarà quello che ha qualcosa in più a 360 gradi. Però spero che la squadra arrivi pronta nella sua totalità. Prima che qualcun altro creda in te stesso, tu per primo devi credere in te stesso. Io cerco di trasmettere questo ai ragazzi, per crescere e avere un’aspettativa superiore a quella che hanno oggi. Domani devono venire al campo e aspettarsi qualcosa in più da sé stessi rispetto a quello che hanno dato oggi.

Quando si parla di un giocatore si dice spesso “sta facendo una stagione al di là delle aspettative”. Ma le aspettative di chi? Di quello che si vedeva fino a 6 mesi fa. Quello che è nella testa del giocatore e nel gruppo è l’ingrediente segreto speciale che permette di evolvere.

Stephen Lorenzo Varney, mediano di mischia azzurro, con la maglia di Gloucester (BBC)

Per concludere, quali sono i momenti più emotivi che ricordi della tua carriera di giocatore?

Il momento più difficile in assoluto è con la maglia di Gloucester, quando dopo aver vinto la semifinale contro i Saracens di Fabio Ongaro, mi infortunai durante la partita al crociato posteriore e non potei scendere in campo per la finale. Assieme al post-coppa del mondo 2007 (per altri motivi), non poter scendere in campo per quella partita è stata una pugnalata incredibile. Avevo investito così tanto emotivamente…

Ma anche quello è stato un grande momento di insegnamento. Però non ti nascondo che ricordo ancora adesso quando ero seduto sul divano a piangere realizzando che non avrei potuto prendere parte alla partita. Un dolore che sento ancora adesso parlandone.


L’intervista è poi continuata per altri 10 minuti parlando di altre cose, che potrete sentire ascoltando la versione integrale sul feed di Leoni Fuori (Spotify, YouTube). Come sempre, Marco Bortolami si dimostra una persona con una grande lucidità di pensiero e capace di connettere bene passato, presente e futuro della sua vita traendone insegnamenti e sapendoli trasmettere.

Autore

  • Matteo Schiavinato

    Sono laureato in Biologia Molecolare a Padova, ho un Dottorato in Bioinformatica a Vienna, lavoro in Università a Barcellona e mi chiedo tutti i giorni se non dovevo fare l'ISEF quella volta e studiare sport. Nel tempo libero dal lavoro mi vesto di biancoverde, conduco il podcast "Leoni Fuori", scrivo articoli sul rugby, suono vari strumenti musicali e scrivo di film d'azione.

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