Franchigie sí, franchigie no, questo dibattito infinito sembra l’unica cosa che non metterà mai d’accordo gli appassionati del rugby in Italia. Perché?

NOTA:
Questo è un articolo lungo; ecco una tabella dei contenuti per balzare direttamente ai punti che più vi interessano:

  1. L’eterna diatriba
  2. Gli occhi lucidi guardando al passato
  3. Guadagnare per giocare?!
  4. Adattarsi al professionismo
  5. Gli anni della sopravvivenza
  6. Una partenza “all’Italiana”
  7. Confrontarsi coi migliori
  8. Troppo apice, poca base
  9. La tentazione di “tornare”
  10. Possono coesistere i due approcci?
  11. Se le franchigie sparissero domani
  12. E se la soluzione fossero altre franchigie?
  13. In conclusione
Un’immagine di repertorio (circa 2019-2020) di una partita fra Benetton Treviso e Zebre Parma, le due franchigie italiane impegnate in United Rugby Championship.

L’eterna diatriba

Non esiste appassionato o appassionata di rugby in Italia che non abbia almeno una volta parlato di franchigie e di campionato domestico con qualcuno. Molto probabilmente scontrandosi nelle opinioni, perché è un tema più divisivo di pandoro contro panettone. Pare quasi che non si possa propendere per una delle due posizioni senza invalidare completamente l’altra, cosa che secondo me è fondamentalmente sbagliata. Crediamo di dover sposare un ideale in toto ignorandone i punti deboli e promuovendone quelli forti, quando invece dovremmo semplicemente essere intellettualmente onesti e cercare di riconoscerne pregi e limiti. Chi vi scrive è un tifoso di Treviso, il quale avrebbe tutto l’interesse a incensare il modello franchigie, ma che vuole invece essere il più obbiettivo possibile analizzando pro e contro di ogni posizione.

Marco Bortolami, ora head coach di Treviso, da giocatore seconda linea di Petrarca, Narbonne, Gloucester, ma anche Aironi e Zebre.

Gli occhi lucidi guardando al passato

Il tema dei bei tempi andati è un grande classico in ogni ambito artistico e sportivo. Chi ha vissuto un’epoca d’oro di qualcosa fatica ad adattarsi ai tempi che cambiano. I vostri genitori vi parlano dei Led Zeppelin dicendo “quella era vera musica”, o magari vi dicono che un tempo avevamo un campionato con un discreto seguito e ricco di campioni. Negli anni ’80 e ’90 passarono per l’Italia talenti come David Campese, Craig Green, John Kirwan, Naas Botha, e molti altri di cui potremmo passare ore a fare i nomi. Nomi grossi, come se oggi giocassero in Italia Will Jordan, Beauden Barrett e Handré Pollard, per spiegarlo a chi conosce meglio il rugby contemporaneo.

“Da dilettante, sono diventato il primo rugbista milionario”.

David Campese

Altri tempi: questi grandi campioni venivano da noi perché, in un rugby ancora amatoriale, il sistema italiano permetteva di pagare dei “rimborsi spese” piuttosto lauti. Era come se in Italia ci fosse una sorta di professionismo mascherato che oggi invece è la norma in tutti i campionati più importanti (più precisamente, dal 1995). Perso quel vantaggio nel mercato, il nostro campionato si è impoverito nel decennio prima delle franchigie (2000-2010). Anche a causa di questo si decise di provare a mettere tutto su due squadre per provare a tenere il passo.

Naas Botha, mediano di apertura degli Springboks, e del Rugby Rovigo dal 1987 al 1993. Altri tempi.

Guadagnare per giocare?!

Il rugby union ha resistito fino all’ultimo al professionismo, cosa alla base della scissione di codice con il rugby league nel 1895 (100 anni prima!), perché percepire stipendio per uno sport non poteva allinearsi con i valori della società benestante inglese di fine ‘800. Make your own rugby league if you want to earn money with it, disse qualche impomatato conte inglese ai lavoratori delle fabbriche di Wigan che chiedevano dei permessi speciali dal lavoro per poter andare a giocare le partite, dato che quel denaro gli serviva. E così fu, portando allo scisma fra union e league. Fino al 1995, e anche un po’ dopo, l’ambizione ha dunque spinto molti grandi talenti del rugby mondiale a venire in Europa (e anche in Italia) a cercare fortuna economica che in patria non potevano avere. In un certo senso, un po’ come fanno neozelandesi e sudafricani con il campionato giapponese al giorno d’oggi. I calendari dei due emisferi, inoltre, si incastravano bene per poter fare in una stagione un campionato di qua e uno di là.

Una famosa foto di Vittorio Munari che parla con David Campese al Petrarca negli anni ’80 (fonte: SMH).

Adattarsi al professionismo

Quando il rugby è diventato professionistico, è sostanzialmente diventato terra di conquista per chi aveva più soldi da offrire. Niente di male in tutto questo, è stata fatta una scelta e si è vissuto con le conseguenze. Nel nostro caso, in Italia abbiamo perso un vantaggio competitivo che avevamo, e cioè di attrarre talento perché si poteva pagarlo con quello che a tutti gli effetti era un raggiro di una regola. Un esempio forse eclatante fu quello del Milan Rugby finanziato da Berlusconi, che negli anni ’90 imperversò nel campionato di eccellenza vincendo molto, ma che nella stagione 1997/98 venne abbandonato perché non redditizio dal cavaliere, cosa che portò l’Amatori Milano, squadra più titolata d’Italia, a ripiegarsi su sé stessa nel giro di alcuni anni.

Per contro, Francia e Inghilterra hanno visto i loro campionati nazionali già seguitissimi fiorire sotto grosse sponsorizzazioni di ricchi imprenditori. Ad oggi il budget dello Stade Toulousain (43 M€) è pari a quello dell’intera FIR (~40-42 M€), e 3.5 volte superiore a Treviso (12.7M€). Nello sport professionistico non si fa nulla senza i quattrini: ed è proprio qui che viene il tasto dolente, perché le franchigie costano alla FIR circa 5 M€ ciascuna per stagione, i quali vengono solo parzialmente tamponati dai proventi ricavati dal torneo (URC). Il resto viene coperto con gli introiti del Sei Nazioni. Chi si oppone alle franchigie molto spesso vede in questi soldi del potere economico che si poteva usare nel rugby di base per alzarne il livello.

David Campese con la maglia del Milan (Il Foglio).

Gli anni della sopravvivenza

Negli anni ’90 Berlusconi aveva portato campioni e denaro in un contesto dove con pochi soldi (per lui) si poteva andare distanti. Lo testimoniano i quattro scudetti vinti (1991, 1993, 1995, 1996) in epiche sfide contro Treviso che ancora oggi riecheggiano sugli spalti dello stadio trevigiano fra i tifosi di una certa età. Denaro non sufficiente a tenere il passo delle corazzate francesi e inglesi che nel 1995 aprivano agli investitori e che oggi, a distanza di 28 anni, sono sostanzialmente inarrivabili per budget annuale della prima squadra.

Gli effetti sul rugby italiano, dal 1995 in poi, sono stati di un impoverimento progressivo del talento a disposizione. I club cercarono come poterono di arginare questa diaspora di talenti andando a fare la spesa nelle unions meno ricche come quella Argentina, portando in Italia oriundi come Castrogiovanni, Parisse, Pez, Dellapè e Canale. Gente come Diego Dominguez già militava in Italia dal 1990 ed aprí la strada per questa diaspora di argentini con passaporto italiano verso lidi più prosperi della terra albiceleste. La perdita di prestigio, potere e talento divenne evidente negli anni fra il 2000 e il 2010, e si decise allora di provare a tenere il passo strutturando un modello “a franchigie” simile a quello irlandese e gallese, portando due squadre nell’allora Celtic League nella stagione 2010/11. La competizione celtica esisteva già dal 2002, ed era nata per la stessa necessità: cercare di tenere il passo di Inghilterra e Francia almeno con qualche squadra.

Una touche contesa fra Roma e Benetton Rugby nella stagione (l’ultima in Italia) del 2009 (Wikimedia).

Una partenza “all’Italiana”

La Celtic League che riuniva le migliori squadre irlandesi, scozzesi e gallesi aveva aperto le porte a due franchigie italiane. Furono presentate varie candidature, fra le quali le più quotate furono quelle del Benetton Rugby, dei Praetorians Roma, degli Aironi del Po di Viadana, e di un eventuale consorzio di società venete per riformare i celebri “Dogi”. La proposta dei Dogi naufragò molto presto, portando Benetton a decidere di provare a correre da solo. Vinsero il bando, però, Roma e Viadana, tagliando di fatto fuori il Veneto dall’accesso alla Celtic League.

La candidatura di Roma pareva ideale sotto il profilo economico, di know how e turistico. Radunava gli sforzi di Lazio, Capitolina e Rugby Roma, società storiche della capitale e del rugby italiano. Tuttavia, si rivelò molto più fragile del previsto. Treviso fu allora riammessa nel bando e ne prese il posto. Il campionato di Celtic League del 2010/2011 vide dunque l’ingresso di Benetton Treviso e Aironi Viadana, con gli astanti dalle nazioni celtiche probabilmente già frastornati dalla quantità di cambi di idea della federazione italiana in sei mesi di trattative. Due anni dopo, gli Aironi avrebbero chiuso i battenti e la seconda franchigia sarebbe diventata quella delle attuali Zebre Parma.

Tito Tebaldi in azione con la maglia degli Aironi (Claudio Villa/Getty Images)

Confrontarsi coi migliori

Questo continuo batti e ribatti non ha giovato al rugby italiano, portando a ulteriori scontri e divisioni basati su rancori e invidie tutti con il loro relativo fondamento. Treviso aveva legittimamente vinto un bando con la caduta della candidatura romana, ma da lì a poco sarebbe diventata un’arraffa-talenti grazie al sistema dei permit players, andando a prendere i migliori giocatori da tutte le squadre di Eccellenza che fino all’anno prima erano rivali. Un sistema che tutt’oggi non viene digerito bene da nessun club di Serie A Élite (come dargli torto). Il rugby italiano ne beneficia a livello di nazionale, ma i club faticano a tenere la barra alta se i migliori vanno sempre via dopo un anno.

Partecipare al campionato celtico ha significato, in questi 13 anni, soprattutto dare la possibilità ai nostri migliori atleti di confrontarsi con giocatori e squadre molto più forti su base settimanale. Molti dei nostri migliori atleti giocavano fuori dall’Italia, ma con l’arrivo delle franchigie, molti sono tornati per giocare in Italia sotto un modello professionistico. Avere circa 100 giocatori (fra le due squadre celtiche) che settimanalmente si allenano ad alta intensità e giocano contro squadre come Leinster, Munster, Ulster, ma anche Edimburgo e Glasgow, ha significato un notevole aumento della performance dei nostri atleti, soprattutto quelli giovani.

Molti giovani che arrivano oggi, nel 2023, a Treviso o Parma, parlano di allenamenti incredibilmente più duri e attenzione al dettaglio molto maggiore. Spesso si dice che il salto fra Serie A Élite e URC “ti toglie un secondo per ogni gesto”, motivo per cui chi passa dall’uno all’altro campionato ha bisogno di adattarsi per un po’. Questo è un valore per il nostro rugby a livello nazionale: i giocatori che vestono l’azzurro sono, ad oggi, più abituati a giocare a quei ritmi. E di conseguenza, l’Italia che al 60′ non ne ha più neanche contro Scozia e Galles è un ricordo della scorsa decade (i problemi, oggi, sono altri).

Paolo Garbisi nella partita di Challenge Cup giocata contro il Montpellier nella stagione 2020/2021. Montpellier diverrà la sua squadra l’anno dopo.

Troppo apice, poca base

Tenere il passo dei più grandi in Celtic League (ora URC) è stata durissima e continua ad esserlo. A distanza di 13 anni, Treviso sembra aver capito come fare ma sono serviti tanti contributi federali e tanti contributi privati di Luciano Benetton. Le Zebre, invece, non sembrano aver raccolto il favore degli imprenditori locali e operano con un budget ridottissimo per la lega in cui giocano. I molti milioni (5 per franchigia) di euro che vengono versati annualmente dalla federazione per mantenere la presenza in URC hanno impoverito la base e il campionato domestico al punto che è quasi incomparabile con quello che era anche solo 15 anni fa.

I club faticano a tenere un livello elevato e non riescono a trattenere i propri talenti perché alle franchigie è concesso prenderli più o meno a piacimento per portarli al livello superiore. Ogni anno i migliori atleti giovani del campionato domestico vengono “assegnati” alle due franchigie per farli continuare a crescere, il che è un bene per gli atleti in questione ma un male per i club che perdono capitale umano su cui hanno investito. In sostanza, è stato dato molto potere alle due squadre di vertice. Potere che, volenti o nolenti, rompe gli equilibri interni del campionato nostrano e ne diminuisce interesse e proventi. Bisognerebbe probabilmente trovare un sistema per limitare le possibilità delle franchigie di depauperare i club di Serie A Élite con così tanta facilità.

Gli irriducibili tifosi del Rovigo, le “Posse Rossoblu” (Rugby Rovigo)

La tentazione di “tornare”

Gli scettici di questo sistema guardano al passato: avevamo un campionato forte, avevamo un sistema meritocratico di promozioni e retrocessioni, avevamo le qualificazioni alle coppe per le finaliste del campionato. Insomma, avevamo un sistema che pareva molto quello del calcio e che, sostanzialmente, dava a tutti la possibilità di arrivare in cima. Questo è ovviamente uno dei punti di forza dell’idea di smetterla col modello a franchigie. Perché si tratta di una cosa vera e anche giusta: lo sport deve essere meritocratico, deve garantire ai migliori di avanzare e deve accompagnare i meno capaci nello scendere di categoria, per poter ripensare la loro strategia. “Farsi un anno in B” spesso serve alle squadre per capire meglio come agire sul mercato, come rinforzarsi, come tagliare costi inutili.

Il problema di questo approccio è opposto a quello di avere le franchigie: c’è poca stabilità economica e nessuna squadra sarebbe sostanzialmente capace di raggiungere budget competitivi. Come disse qualcuno, “senza le franchigie avremmo un campionato appena un po’ migliore del domestico di adesso, perdendo lo sbocco nel club rugby di massimo livello”. C’è chi la vede come una sfida, uno “svezzamento” da mamma FIR che costringa i club italiani a tessere relazioni col loro territorio per avere più sponsor, più budget, più qualità. Il rischio, però, è che i costi eccessivi misti all’ambizione vedano i club puntare tutto sulle prime squadre smantellando le giovanili. Se così fosse, si tornerebbe di fatto al 2009, vanificando 14 anni di lavoro per emanciparsene. Un cane che si morde la coda.

I giocatori de L’Aquila Rugby negli anni ’80 salutano i tantissimi tifosi di una delle piazze più calde del rugby italiano (RugbyMeet).

Possono coesistere i due approcci?

Un campionato domestico che sia la massima espressione del suo sport nei confini nazionali genera grande senso di identità, si nutre di rivalità locali, si alimenta delle conversazioni dei tifosi. Un campionato internazionale che raduni le migliori espressioni rugbistiche di varie nazioni è di un livello sportivo molto più elevato ma manca proprio di quell’elemento fondante della passione sportiva: il senso di identità. Trovare un bilanciamento fra queste due correnti è sostanzialmente impossibile, perché una esclude l’altra. Non si può avere l’accesso allo URC ma anche promozioni e retrocessioni. Non si può avere solo il campionato domestico e sperare di avere i proventi e l’esperienza dello URC.

Una possibile soluzione, però, potrebbe essere quella di separare i due mondi completamente come avviene in Argentina. Lasciare che siano i club e le federazioni regionali ad amministrare il campionato domestico, e lasciare che la FIR si occupi solo di franchigie e nazionale. Avere una lega di club che si organizza per crescere organicamente, finanziarsi, trovare un emittente televisivo e progredire come meglio crede. Avere una federazione che si occupa di guidare gli atleti che vogliono passare da questo campionato al professionismo. Si potrebbe creare una sana competizione fra franchigie e campionato domestico. Potrebbe, però, anche finire in catastrofe con nessuno che si parla più, una sorta di doppio movimento rugbistico ancora più separato di quanto non sia già ora. Siamo in Italia, d’altronde, ed è già difficile chiedere a due club della stessa città di lavorare insieme.

Gli Jaguares argentini entrano in campo. Franchigia ora defunta che partecipava al Super Rugby, ha formato professionalmente la quasi totalità della nazionale argentina di oggi.

Se le franchigie sparissero domani

Cosa succederebbe? Innanzitutto sparirebbero con esse alcuni milioni di euro che la FIR incassa grazie ai diritti TV dello URC. Rimpatriando le due squadre, le Zebre dovrebbero strutturarsi come club e probabilmente finirebbero per sparire non avendo imprenditori a sostegno. Molti dei giocatori migliori di Benetton e Zebre cercherebbero casa altrove, avendo sicuramente offerte dai migliori campionati europei. Il livello del campionato domestico si alzerebbe un po’ grazie al rimpatrio di un club storico e di giocatori forti, che cercherebbero fortuna in altri club nazionali per trovare minuti. Sicuramente l’interesse per il campionato domestico aumenterebbe, riaccendendo le storiche rivalità come ad esempio in Veneto col “derby a tre” fra Padova, Rovigo e Treviso.

Il riflettore mediatico, già piccolo di suo per l’ovale in Italia, punterebbe dunque di nuovo sul campionato italiano e non più sul campionato transnazionale dove ora giocano Benetton e Zebre. Questo è spesso motivo di confusione per i neofiti: come mai la squadra più forte non gioca in Italia? È la prima domanda che mi fan tutti quando si approcciano al rugby italiano. Di sicuro, qualche beneficio se ne trarrebbe, ma c’è il sospetto che si perderebbe più di quanto si guadagni. I giocatori migliori andrebbero comunque all’estero e non rimarrebbero per giocare in un campionato meno competitivo. I soldi non arriverebbero come per magia ma andrebbero comunque trovati dai club nel tessuto imprenditoriale della loro zona. Il seguito andrebbe comunque ricostruito e non sarebbe automatico che togliendo le franchigie ritorni il grande pubblico degli anni ’90.

In uno slancio romantico di desiderio di riscatto, dunque, si rischierebbe di compromettere il lavoro di 13 anni. Senza voler esprimere giudizi, si tratterebbe di una scelta molto difficile da fare e senza la certezza del risultato. Per quanto mi riguarda, tornare a un unico campionato nazionale senza franchigie non è un’idea così insensata e assurda. Resto dell’idea che sia meglio come siamo adesso, ma non la vedrei come la fine del mondo se dovesse succedere. I lati positivi sarebbero accentrare le forze in un unico posto invece che due, ridurre gli attriti, riesumare il senso d’identità rugbistico che si è perso in molti posti. I lati negativi sarebbero che bisognerebbe davvero fare i salti mortali per avere sponsor, soldi, campioni e televisione tutti allineati e in collaborazione. Inoltre, sarebbe essenziale costringere i club a tenere le giovanili e continuare a formare talento, invece che badare solo ai proventi delle prime squadre.

I giocatori di Rovigo festeggiano lo scudetto del 2023 (Federugby/Getty Images)

E se la soluzione fossero altre franchigie?

Ragioniamo per assurdo, sia chiaro. Squadre come Petrarca e Rovigo hanno più volte manifestato la volontà di salire di livello, e di avere i soldi per poterlo fare. Entrambe, però, sono venete e farebbero un terzetto con Treviso che impoverirebbe ancora di più il già parco panorama rugbistico al di fuori del Nordest. Il centro di allenamento del Petrarca però è un gioiello, le giovanili sono attualmente molto competitive, l’unica pecca è forse la scarsità di tifosi. Rovigo per contro ha un seguito incredibile, ma di recente ha un settore giovanile meno performante rispetto ai rivali padovani, nonostante entrambe abbiano vinto l’U19 dieci volte. Oltre a queste due, la zona di Roma ha un grande bacino di giocatori e già nel 2010 propose la sua candidatura alla Celtic League, naufragata poi per dissapori interni. Infine anche la Toscana produce una notevole quantità di talenti ogni anno.

Tutte queste aree sono perfettamente capaci di crescere giovani atleti promettenti. I loro migliori atleti, però, ogni anno si accasano a Treviso o Parma. Se queste realtà, per assurdo, competessero in URC, avremmo con ogni probabilità Lamaro e Montemauri a Roma, i fratelli Cannone e Simone Gesi in Toscana, e molti altri atleti ancora che oggi sono a Treviso o Parma sarebbero a Padova o Rovigo. Il risultato sarebbe dunque, con ogni probabilità, l’avere 4 franchigie scarse invece che almeno una forte. Magari ci sarebbe più spazio per tutti, sia chiaro, anche quella è una possibilità. Ma a me per lo meno viene difficile pensare che si starebbe meglio con più franchigie.

C’è, infine, un altro problema assolutamente italiano: la difficoltà a collaborare fra entità dello stesso territorio. Come ci è stato raccontato da chi è coinvolto nel rugby catanese, storica realtà italiana, è difficile far collaborare le squadre della città. Inoltre, sempre come ci hanno detto da Catania, pensare a una franchigia a sud di Roma al momento è francamente impossibile perché il tessuto sportivo rugbistico è talmente rarefatto che per molte squadre le trasferte di 3-4 ore o in aereo sono la normalità. Se una franchigia deve accentrare il meglio del talento, bisogna che ci sia molto materiale da cui scegliere il meglio in questione.

Immagine da una partita di U17 fra Benetton e Petrarca. A livello giovanile, i due mondi sono ancora uniti.

In conclusione

La scelta da fare, in sostanza, è se vogliamo tenere le franchigie oppure no. Vogliamo tenerci il campionato meno appassionante ma più competitivo, o vogliamo tornare al campionato che ci rappresenta a livello identitario ma che fatica a tenere il passo? Vogliamo che i nostri migliori atleti giochino contro i migliori irlandesi e sudafricani, o vogliamo che giochino in vari club nostrani e stranieri alimentando le nostre emozioni di tifosi? Quanto siamo convinti che saremmo capaci di gestirci da soli senza un confronto settimanale contro le union migliori del mondo? Quanto siamo convinti che questo confronto ci aiuti, invece di farci diventare sempre più scarsi richiudendoci in noi stessi?

Tantissime domande a cui non si riesce a dare una risposta sola. Ed è proprio questo il punto: non dovete prendere le difese di un unica opinione. Va benissimo essere pro-franchigie ma provare nostalgia per l’Eccellenza degli anni ’90. Va benissimo voler chiudere le franchigie, a patto che si abbia un’idea di come fare senza. Spero di essere riuscito a dimostrare che c’è del buono da entrambe le parti, e che entrambi gli approcci porterebbero a vantaggi e svantaggi. Quale si preferisca dipende da come intendiamo lo sport.

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