Si tratta di un’argomentazione molto in voga nelle reti di discussione rugbistica. “Le franchigie si imbottiscono di stranieri che poi vengono convocati in azzurro impedendo ai nostri giovani di crescere e debuttare in Nazionale”. Nel corso degli ormai 12 anni di esistenza delle due franchigie celtiche, questo discorso è stato affrontato centinaia di volte in maniera sempre uguale ogni volta che un nuovo equiparato od oriundo veste la maglia azzurra. Io non sono molto d’accordo con queste argomentazioni perché ritengo totalmente normale convocare i migliori possibili in ogni ruolo, lo fanno tutte le altre franchigie e tutte le altre nazionali. Inoltre sono abituato per deformazione professionale ad andare a vedere i numeri dietro le cose. Data don’t lie, si dice in ambito scientifico, ed è vero: tramite i numeri si ha modo di definire tendenze, verificarle sperimentalmente, e supportarle con della statistica applicata. Cosa che, con le opinioni, non si può fare. In questo articolo un po’ più ricco di numeri del solito mi sono preposto di andare a vedere i numeri dietro queste argomentazioni e di trarre delle conclusioni solo alla fine, prendendo tutti i risultati insieme, e contestualizzandoli nel panorama del rugby europeo. Vi invito a fare lo stesso, evitando di trarre conclusioni affrettate durante la lettura di questo pezzo. Potreste avere delle sorprese.

La famosa foto dei giocatori dell’Italia con indosso la maglia della squadra che li ha cresciuti. Una foto che ha fatto discutere, vista la presenza di vari “equiparati”. A me è piaciuta, perché è un’istantanea molto schietta e onesta del nostro movimento rugbistico (che piaccia o no).

L’ingresso nel rugby che conta

Il rugby italiano è entrato nel giro de quéi co i schèi nel 2000, con l’ingresso nel Sei Nazioni. Da allora, ha dovuto “smacchinare” parecchio per tenere il passo delle altre cinque. Nei primi dieci anni di Sei Nazioni, la forchetta era forse un po’ meno ampia visto che molti giocatori anche delle altre squadre si erano formati in un contesto non professionistico. Con il passare degli anni, però, la distanza è aumentata notevolmente. Nel tentativo di ridurla, attorno al 2010 si è introdotto due franchigie italiane in quella che allora si chiamava Celtic League (ora URC), un campionato internazionale di livello medio-alto. Non dibatto sulla validità della scelta o meno, non voglio farlo in questo articolo, per cui atteniamoci solo al fatto che la realtà è questa. Mantenersi competitivi in questo contesto richiede tre cose:

  • Notevoli sforzi economici
  • Flussi di talento elevati
  • Un sistema di formazione di talenti efficiente

Checché se ne dica, la FIR è una federazione ricca grazie al Sei Nazioni, con budget che fluttuano attorno ai 40M €. Il flusso di talenti poteva essere garantito nel breve periodo dalla massiccia equiparazione di atleti stranieri di origine italiana o in Italia da anni: Dominguez, Parisse, Castrogiovanni, Orquera, Pez, solo per citarne alcuni di storici. Bisognava però contestualmente mettere in piedi un sistema di formazione per produrci i talenti in casa senza dover ricorrere all’equiparazione per rimanere a galla in un torneo così prestigioso come il Sei Nazioni. A cavallo dello scorso decennio si è provato a farlo e molto si deve alla figura di Steve Aboud; consigliamo l’ultimo video di Squidge Rugby per farsi una bella idea sulla cosa. L’avviamento di un processo così radicale di cambiamento ha richiesto quasi un decennio per mostrare i suoi frutti, ma negli ultimi anni si è finalmente iniziato a vederli. Gli azzurrini U20 vincono regolarmente partite contro le altre cinque, gli U18 vincono più partite di quante ne perdono, e la nazionale maggiore non è mai stata così giovane pur disponendo di notevole talento. Per i più aggiornati, non vi sarà sfuggita l’ultima puntata di Sisifo, dove Vittorio Munari ha smorzato i toni di questo tipo di argomentazione con considerazioni a mio modo di vedere molto valide e puntuali. Il contraltare è, infatti, che non si è affatto aumentata dimensione totale della base del movimento rugbistico, ma semmai si è affinato il livello medio dei talenti prodotti. La coperta corta era e corta rimane.
Tuttavia, per restare in ambito Benetton, molti sono i giovani che solo negli ultimi due anni hanno vestito la maglia biancoverde: Michele Lamaro, Paolo e Alessandro Garbisi, Gianmarco Lucchesi, Niccolò e Lorenzo Cannone, Tommaso Menoncello, Manuel Zuliani, Leonardo Marin, Lorenzo Pani, Filippo Drago, Davide Ruggeri, Riccardo Favretto, Giacomo Da Re. Talenti tutti nostrani che hanno visto il campo molto spesso e guadagnato esperienza ad alto livello. Solo dieci anni fa non avrebbero avuto questa possibilità. Anche qui, Munari precisa nella sua intervista che forse oggi si tende un po’ a bruciarli velocemente, e che i ragazzi che vede passare per il Petrarca Padova tendono a volte a sovrastimarsi. Questi sono altri problemi, la cui soluzione non sta a me trovarla. Ad ogni modo, per rimanere competitivi anche a livello di franchigia in questo contesto professionistico, Treviso ha bilanciato la poca esperienza di questi giovani con atleti affidabili a costi accessibili, molti di cui stranieri (e qui veniamo al tema centrale di questo articolo). Atleti come Ioane, Duvenage, Steyn, Halafihi, Gallo, Tavuyara, Hayward, Rhyno Smith solo negli ultimi anni hanno tenuto alta la competitività della rosa permettendo a Treviso di non abituarsi a perdere.

Una delle immagini più belle viste dal vivo nella mia vita di tifoso biancoverde, nonché lo sfondo del desktop nel mio computer. Un capolavoro di quella che si definisce accidental renaissance: più si guarda questa foto, più si notano dettagli bizzarri. Le mutande di Pettinelli, lo sguardo perso di gioia di Halafihi, l’assenza di Crowley e la presenza di Bortolami, Duvenage che ha raggiunto il nirvana.

Ma allora è vero che le franchigie si riempiono di stranieri

Chiederselo vien da sè. Ma quanti sono effettivamente gli stranieri nella rosa del Benetton Treviso? Per comodità, da qui in poi mi riferirò agli atleti italiani di formazione italiana come “italiani”, agli oriundi ed equiparati come “equiparati”, e ai giocatori di altre nazionalità come “stranieri”. In Ghirada si allenano 43 giocatori, di cui stando ai miei conti 21 sono italiani, 9 sono equiparati, e 13 sono di altre nazionalità. Il numero di italiani escludendo gli equiparati è del 50% circa, mentre se vengono inclusi nel conteggio la percentuale si attesta attorno al 70%.
Quanti di questi giocano regolarmente? Andiamo a vedere i 23 convocati dal Benetton Treviso per ogni partita dal 25 Settembre 2021 fino al 27 Gennaio 2022, data in cui ho iniziato a scrivere questo articolo. Tutte queste informazioni sono reperibili sui siti di URC e EPCRugby. La media stagionale delle tre categorie è 12.5 italiani, 4.9 equiparati, 5.6 stranieri. Dunque, gli italiani sono in media il 54.3% dei convocati di ogni partita (75.6% contando gli equiparati). Quanti partono titolari? Nelle undici partite giocate finora da Treviso i titolari italiani sono stati 7.8, gli equiparati 3.2, gli stranieri 4.0. Questi numeri riflettono le proporzioni evidenziate poco sopra: gli italiani sono il 52.0% del totale, 73.3% se contiamo anche gli equiparati. Se ne conclude che Treviso ha metà giocatori provenienti dal sistema italiano e metà stranieri, e che degli stranieri, la metà è “azzurrabile” (o già “azzurrata”).

Michele Lamaro durante la finale di Rainbow Cup del 2020.

Uno sguardo al passato

Una delle cose che si sente più spesso è che “un tempo non eravamo così pieni di stranieri in nazionale”. Beh, ho fatto i conti e quest’affermazione è semplicemente errata. A partire dal 2000, primo anno di partecipazione al Sei Nazioni, il numero di equiparati nella nazionale italiana è prima aumentato vertiginosamente negli anni fra il 2002 e il 2004, passando dal 17% al 40%. È poi aumentato ancora, raggiungendo un picco del 50% nel 2006. Si è poi assestato su valori fluttuanti fra il 35% e il 45% negli anni a seguire, fino al 2014. Dal 2015 in poi, invece, è sceso di anno in anno, partendo da un valore del 30% registrato nel 2015 fino al 19% registrato nel 2021. Il trend, dunque, è quello di una nazionale che ha percorso queste tappe, in quest’ordine:

  • Ingresso nel Sei Nazioni con una squadra principalmente italiana
  • Adattamento tecnico a breve termine con equiparazione massiccia di giocatori
  • Sviluppo di un sistema di formazione adeguato in background
  • Lenta ma costante sostituzione degli equiparati con atleti prodotti dal sistema italiano

È dunque falso che “l’italia si imbottisce sempre più di stranieri”. Nel caso della nazionale che giocherà il Sei Nazioni 2022, va detto il numero di equiparati è maggiore degli ultimi cinque anni. Va però anche detto che si tratta di un momento difficile per una delle due franchigie italiane, che ha costretto il coach Crowley a fare delle scelte più radicali del solito. In generale, si tratta di un dato fuori asse che però non cambia il trend discendente osservato.

Sergio Parisse, il capitano, uno dei giocatori più importanti della nostra storia recente. Nasce a La Plata, cresce rugbisticamente in Argentina, e debutta con l’Italia nel 2004.

Nelle franchigie ce ne sono ancora tanti

La presenza di atleti stranieri dal rendimento elevato permette ai giocatori italiani di mantenere un approccio vincente alla partita e alle competizioni mentre il movimento si struttura e cresce. Quest’ultima frase è importante per capire la scelta: i sistemi formativi italiani una decina di anni fa non erano neanche lontanamente comparabili a quelli di nazioni come Francia, Inghilterra, Irlanda, Galles o Scozia. Dall’avvento del professionismo (1995) c’è stata un’impennata nelle skills fisiche, tecniche e mentali richieste ad un giocatore per essere competitivo sul piano internazionale. Nazioni più “ovali” di noi avevano già un sistema formativo adeguato a reggere l’urto: noi no. Nel giro di 10 anni, però, qualcosa è stato fatto e il gettito annuale di giocatori pronti per il professionismo è aumentato (più nella qualità media che nel numero, come dicevamo prima). Ne è riprova la costante diminuzione di equiparati, di anno in anno, convocati dalla nazionale per il Sei Nazioni. Mentre tutto ciò avviene, però, c’è da pensare al presente dei club. Per i giovani italiani in rosa è essenziale essere partecipi di un percorso stabile e capace di vincere almeno una partita su due, cosa che Treviso sta riuscendo a fare spesso nelle ultime 5 stagioni. Significa rinforzare la fiducia nei propri mezzi e vedere il frutto della propria fatica pagare almeno la metà delle volte con quattro punti. Campioni come Paolo Garbisi hanno il rugby nel sangue ma, senza una squadra forte intorno, non sarebbero riusciti a imporsi anche in partite importanti attirando le attenzioni del Montpellier Herault. Giocatori come Giovanni Pettinelli e Tommaso Menoncello stanno vivendo un’annata incredibile, fra mete siglate e Man of the Match, ma sono circondati da un’impalcatura di squadra di spessore. Talenti come Gianmarco Lucchesi, Michele Lamaro e Leonardo Marin non sbocciano da soli ma perché collocati in un impianto capace di dargli la struttura e la sicurezza per sbagliare senza troppe ripercussioni affrontando avversari di prima fascia. Se i giocatori stranieri servono a mantenere alto il livello complessivo finché non ci bastiamo da soli, ben venga. Il movimento italiano ne ha solo da guadagnare. Un giorno, speriamo vicino, saremo in grado di ridurre quel numero anche nei club.

Pettinelli (man of the match) e Lamaro festeggiano la vittoria contro le Zebre di fine Dicembre.

Nelle altre nazioni non fanno così”

Non è vero. Sono ben 15 gli equiparati della Scozia per il prossimo Sei Nazioni, squadra di cui parliamo tutti un gran bene riempiendoci la bocca di elogi al “sistema scozzese” capace di produrre tutto questo talento (io per primo). In Galles, terra del rugby per eccellenza, gli equiparati fra i dragoni sono 9. Molti sono anche gli equiparati irlandesi, si pensi ai vari James Lowe, Jamison Gibson-Park, al ritirato CJ Stander. Noi ne portiamo 11, un numero totalmente comparabile a queste nazionali.
Discorso diverso va fatto per Francia ed Inghilterra. Queste due nazioni possiedono campionati domestici competitivi e ricchi, cosa da non sottovalutare mai quando uno sport è professionistico. La grande quantità di denaro che gira intorno al rugby in questi due paesi fa sì che ci siano almeno una decina di squadre professionistiche capaci di sfornare talenti con cadenza annuale. Sia in Francia che in Inghilterra, il numero di equiparati è di conseguenza molto minore, seppur non nullo. Si tratta di due nazioni dove il rugby ha una rilevanza mediatica inconfrontabile con l’Italia. Un ragazzino nato a Tolosa è facile che sogni di indossare la 10 dello Stade un giorno, tanto quanto una ragazzina nata a due passi dallo Stoop a Londra sognerà sempre di vestire la maglia degli Harlequins. Io sono Veneto e da noi il rugby ha molta visibilità, ma è un caso isolato in Italia, e anche da noi viene comunque prima il calcio (ahimè). La grande maggioranza degli atleti italiani che ha vestito la maglia azzurra negli ultimi 20 anni è nata in Veneto, un unicum a livello nazionale per densità di società rugbistiche. Un’area geografica quattro volte più piccola della Scozia e con un po’ meno abitanti. Altre zone d’Italia hanno nel tempo generato molti talenti, come gli enclavi in Emilia, Lazio, Abruzzo, Toscana e al sud (Napoli, Benevento, Catania). Tuttavia, finché non svilupperanno una densità di know-how paragonabile, fare uso di equiparati sarà per noi una necessità e non un vezzo.

James Lowe, equiparato irlandese, contro quella che sarebbe potuta essere la sua squadra (gli All Blacks) ma che non gli ha dato una possibilità. Ha avuto la sua rivincita nei test autunnali del 2021, battendo gli All Blacks all’Aviva Stadium di Dublino con la sua Irlanda.

In conclusione

La nota finale di questo articolo vuole essere una nota di speranza. Gli ultimi cinque anni di nazionale azzurra ci hanno visto sprofondare in un baratro di sconfitte dal quale è difficile uscire senza perdere un po’ di autostima. Sono, però, anche stati gli anni della lenta ma graduale sostituzione dei giocatori prodotti da altri paesi e poi equiparati con giocatori prodotti da noi. Sono stati anche gli anni del ringiovanimento della rosa, e dell’accresciuto riconoscimento internazionale di almeno una delle nostre due franchigie (Treviso), ora vista come una squadra competitiva e non come una cute story. Il sistema ha avuto bisogno di un po’ per ingranare, e ha sicuramente tratto importanti conclusioni dai suoi stessi sbagli. Ora, però, iniziamo a vedere alcuni sparuti frutti del lavoro fatto negli anni passati emergere dalle filiere giovanili e giocarsela, almeno a livello di giovanili, con le altre cinque nazioni del torneo. Come detto da Squidge Rugby nel suo ultimo illuminante video sulla situazione dell’Italia, siamo forse al momento dove possiamo smettere di guardare al passato, e iniziare a guardare al futuro.

Autore

  • Matteo Schiavinato

    Sono laureato in Biologia Molecolare a Padova, ho un Dottorato in Bioinformatica a Vienna, lavoro in Università a Barcellona e mi chiedo tutti i giorni se non dovevo fare l'ISEF quella volta e studiare sport. Nel tempo libero dal lavoro mi vesto di biancoverde, conduco il podcast "Leoni Fuori", scrivo articoli sul rugby, suono vari strumenti musicali e scrivo di film d'azione.

6 pensieri riguardo “È vero che l’Italia campa di equiparati?

  1. Sbaglio o con Equiparati hai messo dentro anche gli oriundi?
    Negri, Varney sono oriundi, Ioane e Faiva equiparati. Sono però giustamente tutti di formazione estera.

    1. Si e nell’articolo definisco la cosa dicendo che uso la parola “equiparati” per indicare entrambi. E per non dover dire ogni volta equiparati/oriundi.

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